Questa storia inizia prima che sia nata l’Italia, inizia a Roma nel 1849
“L’associazione senza armi e senza scopo di delitto è libera!”
Così recita l’Articolo 11 della Costituzione della Repubblica di Roma del 1849
E’ nella breve esperienza proto-democratica romana che si può trovare l’origine di quella forma di organizzazione sociale che chiamiamo “partito politico”. A Roma, dopo la fuga di Pio IX, si era tentato di costruire un sistema di rappresentanza più ampio rispetto a quanto in altri Stati Europei si stava facendo.
Storia dei Partiti Politici è un podcast di Liberi Oltre curato e condotto da Costantino De Blasi
La rivoluzione industriale aveva fatto crescere una classe sociale…
Questa storia inizia prima che sia nata l’Italia, inizia a Roma nel 1849
“L’associazione senza armi e senza scopo di delitto è libera!”
Così recita l’Articolo 11 della Costituzione della Repubblica di Roma del 1849
E’ nella breve esperienza proto-democratica romana che si può trovare l’origine di quella forma di organizzazione sociale che chiamiamo “partito politico”. A Roma, dopo la fuga di Pio IX, si era tentato di costruire un sistema di rappresentanza più ampio rispetto a quanto in altri Stati Europei si stava facendo.
Storia dei Partiti Politici è un podcast di Liberi Oltre curato e condotto da Costantino De Blasi
La rivoluzione industriale aveva fatto crescere una classe sociale via via più potente e organizzata: la borghesia. E, all’interno di essa, non necessariamente legata alle macchine, alle fabbriche e alla produzione, una sottoclasse culturale formata da ingegneri, medici, notai e avvocati sensibile alla partecipazione per il governo dello Stato.
Fra i protagonisti dell’esperienza romana ci fu Giuseppe Mazzini, già creatore della Giovine Italia. Ma il tentativo Mazziniano non si può considerare ancora come partito politico. Ne manca uno dei fattori fondamentali: la partecipazione all’arena politica (ovvero la contesa per il potere) giacché nacque come organo di sensibilizzazione dei cittadini ancora non coscienti di esserlo…cittadini.
E allora vediamoli i caratteri fondativi del partito politico:
Prima di tutto un’idea, o per meglio dire, un ideale di Nazione (o Patria) intorno alla quale si unisca un comune sentire; un “patto costitutivo” che regoli la partecipazione dei cittadini alla vita politica sancendone doveri ma soprattutto diritti; poi una organizzazione gerarchica interna, generalmente di carattere democratico, che affidi la rappresentanza di quell’ideale e delle persone che in quell’ideale si riconoscono ad un leader che se ne faccia portavoce e conduca la battaglia per le istanze e i diritti fondativi; infine la competizione in un’arena politica aperta e libera.
Nell’entità geografica che chiamiamo Italia di metà 800 è proprio quest’ultimo carattere ad essere assente o limitato. Laddove verrà concessa dal sovrano una costituzione, pensiamo allo Statuto Albertino del 1848, e all’interno di quella costituzione una o due camere elettive, la competizione elettorale verterà intorno alle figure carismatiche di leader che sono leader non per effetto di una “carriera” iniziata dal basso e le cui capacità di rappresentanza sono scelte da cittadini organizzati, bensì lo sono o perché appartenenti al notabilato o perché appartenenti a quella borghesia ricca che si è avvicinata al Re.
E’ sempre per l’assenza di questa caratteristica che non possiamo considerare partito politico la Carboneria, fondata sulla segretezza.
Tuttavia perché si arrivi alla partecipazione politica organizzata alcune delle condizioni necessarie nello Statuto Albertino ci sono: in primo luogo la libertà di stampa.
In quel periodo nel piccolo Stato Savoia ci fu un fiorire di giornali che avrebbero forgiato l’opinione pubblica e l’avrebbero avvicinata alla partecipazione politica: La Concordia, Il Risorgimento, L’Opinione.
Ma lo Statuto fu probabilmente anche un modo in cui, attraverso alcune aperture, il Re voleva mantenere lo status quo e i privilegi propri che in quella Carta erano ribaditi.
Massimo D’Azeglio nel proclama di Moncalieri del 20 novembre 1849 con queste parole ribadiva la limitazione della partecipazione politica rispetto alla immutabilità del Regno e dell’assetto che attraverso lo Statuto si era dato:
“Ho promesso salvar la Nazione dalla tirannia dei partiti, qualsiasi siasi il nome, lo scopo, il grado degli uomini che lo compongono”
Riflettiamo su questi due punti: era il 1849 (appena dopo il vasto e generalizzato fermento che aveva percorso tutta l’Europa e ricordato come il 48) e la tirannia dei partiti; partiti che ancora non esistevano ma i cui elementi che ne sarebbero stati il carburante D’Azeglio aveva previsto con largo anticipo.
Il protopartito sarebbe infine arrivato per e con l’Unità d’Italia. Mazzini aveva immaginato la sua Giovine Italia (ma anche La Giovine Europa, l’Associazione Italiana al Partito d’Azione, la Falange Sacra dell’Alleanza Repubblicana Universale) più come una rete che come un partito, ma quando dopo l’unità coloro che avevano attraversato quell’esperienza, persino nella sua ala militare come Garibaldi, entrarono nel parlamento del nuovo Stato, le basi per la formazione del soggetto politico “partito” c’erano ormai tutte.
Nel 1853 Mazzini aveva delineato il suo modello descrivendolo con un processo di evoluzione:
Un Paese che vuol farsi libero (ricordiamo che la questione nazionale è in quel periodo fondante tanto nelle aspirazioni dei Savoia quanto nell’ideale mazziniano) deve trascorrere due periodi: il primo periodo è di educazione; il secondo di azione […]. Nel primo periodo bisogna insegnare al popolo l’adorazione dell’idea nazionale e la virtù di morire per essa; nel secondo periodo, quando fatti collettivi solenni hanno rivelato che l’idea si è incarnata nella parte migliore del popolo, l’unica iniziazione educatrice è l’azione
Sulla base di queste premesse nel primo periodo post unitario i mazziniani furono promotori delle prime iniziative organizzate di partecipazione alla vita sociale del Paese: le organizzazioni artigiane ed operaie e le società di mutuo soccorso dette, appunto, democratiche. La partecipazione politica era per lo più relegata a forme assembleari dato che quella elettiva era fortemente limitata dal censo (si poteva votare ed essere eletti infatti soltanto in base al pagamento di una certa aliquota di imposte e in base alla capacità di leggere e scrivere).
In quell’Italia i tassi di analfabetismo erano molto elevati. Si andava da un 55% delle regioni del Nord fino ad un 80% e oltre delle altre aree geografiche. A votare era circa il 2% della popolazione registrata.
A governare era la cosiddetta Destra Storica; sostanzialmente il partito del Re e dello Statuto formato dalla nobiltà, dall’esercito, dalle forze dell’ordine, dai prefetti e dalla magistratura. Questo coacervo di istituzioni si riconosceva nelle figure carismatiche che lo rappresentavano nel parlamento e al governo. Morto improvvisamente Cavour nel 1861 questa figura carismatica venne a mancare e con la sua scomparsa la Destra non seppe produrre leader capaci di mettere d’accordo le frammentazioni locali e regionali e rappresentare unitariamente le istituzioni del Regno.
Emersero invece figure dalla sinistra più o meno mazziniana, ben inserite nel sistema istituzionale, che sarebbero state protagoniste, non sempre in meglio, della vita politica del Paese: penso a Depretis, a Crispi, a Cairoli.
In quel brodo culturale ispirato dalle intuizioni di Mazzini ma anche da movimentismo militare di Garibaldi, prese vita una nuova sinistra di governo teorizzata da Francesco De Sanctis. Una sinistra che avrebbe dovuto abbandonare definitivamente l’opzione militare (Garibaldi era stato sconfitto a Mentana il 3 novembre 1867da un corpo di spedizione francese a difesa del Papa) per farsi offerta di governo col compito di correggere, o anche solo mitigare, le storture dell’autoritarismo di destra.
Quella sconfitta fu importante anche per un altro motivo. In qualche modo fece compiere una evoluzione agli attori politici inducendoli ad accantonare la questione nazionale per concentrarsi sulle questioni interne, sul fare gli italiani. Sul creare in altre parole, passando attraverso la riforma del suffragio, l’alfabetizzazione, il decentramento dei poteri, una coscienza nazionale che avrebbe condotto gli italiani dalla nazionalità al nazionalismo.