Origini e Formazione
Per tutto il periodo prebellico non era esistito un partito liberale. L’Italia che chiamiamo liberale, era come abbiamo visto retta da uomini politici che avevano indubbiamente un riconosciuto carisma ma che avevano rifiutato l’idea che le masse dovessero essere guidate attraverso un’organizzazione politica; anzi, obbedendo ad una logica elitista, guardavano quasi con disprezzo i movimenti politici che avevano un’ampia base di partecipazione. Così, mentre si andavano formando i primi partiti di massa, socialisti, popolari, repubblicani, comunisti, i liberali rimasero nella loro torre d’avorio incapaci di vedere le profonde trasformazioni sociali che andavano formandosi nel Paese.
Un tentativo di unire i liberali sotto un’unica bandiera, organizzato in partito, superando il modello pragmatico di Giolitti, fu fatto da Salandra ma questo tentativo fu spazzato via dalla guerra.
Solo nel 1922, in un’Italia ormai pronta al fascismo, fu fondato il Partito Liberale Italiano. E anche in quella fase molti di loro non ne seppero coglierne la natura eversiva, preferendo spesso vederlo come un argine necessario all’avanzata della sinistra e come un modo di difendere la monarchia.
Una vita breve, quella del PLI fondato da Emilio Borzino e che voleva ispirarsi all’esperienza dei padri fondatori dell’Italia, perché come tutti gli altri partiti fu sciolto dal fascismo.
Ricostituzione e Rinascita
A guerra in corso e dopo la caduta di Mussolini un primo nucleo di partito liberale fu costituito per iniziativa di Benedetto Croce. Nell’estate del 1943 a Salerno fondò il Movimento Liberale Napoletano. Movimenti simili furono costituiti su base regionale anche a Roma , Milano, Torino, Firenze. L’unificazione di questi movimenti regionali avvenne nel 1944 ma non mancarono attriti e discordie. C’era chi vedeva la nuova formazione politica come una forza progressiste che si sarebbe dovuta aprire alla società produttiva e chi, invece, ne vedeva la continuazione dell’esperienza risorgimentale. In entrambi i casi il partito non riuscì mai, neanche in questa prima fase di rinascita, ad uscire dalla logica elitaria precludendosi dunque la possibilità di raccogliere consenso di massa in una società in profonda trasformazione. Non mancarono certo figure di grande rilievo intellettuale capaci di incidere nella repubblica in formazione. Vengono alla mente i nomi di Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, ma anche quello di Mario Pannunzio, animatore della rivista il Mondo e che insieme a Nicolò Carandini fondò il Movimento Liberale Indipendente.
Nel 1951 Pannunzio e Carandini tornarono nel Partito Liberale per poi uscirne definitivamente nel 1955.
Nonostante questa frammentazione i liberali ebbero parte attiva prima nel Comitato di Liberazione Nazionale e poi nell’immediato dopoguerra, ma fu una partecipazione ancora una volta legata all’autorevolezza di esponenti come Benedetto Croce e Alessandro Casati.
Nel congresso del 1946 si formò il vero e proprio PLI che poi avrà un ruolo nelle sorti politiche del Paese. Durante quel congresso fu ribadita, vien da dire finalmente, l’impronta antifascista dell’azione politica ma anche la fedeltà alla monarchia. Alle elezioni dello stesso anno il PLI si alleò con il Partito Democratico del Lavoro e a quelle del 1948 con il Fronte dell’Uomo Qualunque.
Nei governi seguenti, quelli del primo dopoguerra, il PLI fu al fianco della democrazia cristiana nel cosiddetto blocco centrista, fedele all’atlantismo e all’anticomunismo. Facevano parte di quel blocco naturalmente la Democrazia Cristiana di De Gasperi, vero baricentro della politica atlantista, e i suoi alleati di sinistra, il Partito Socialista dei Lavori Italiani di Saragat (che poi assumerà il nome di Partito Socialista Democratico Italiano) e il Partito Repubblicano, e quelli di destra: il PLI appunto.
Questo blocco centrista guiderà l’Italia fino alla separazione fra socialisti e comunisti avvenuta dopo i fatti d’Ungheria.
Nel luglio del 1948 il Movimento Liberale indipendente, guidato da Riccardo Villabruna, fece un ulteriore tentativo di riunificazione delle varie componenti che si ispiravano al liberalismo ipotizzando la costituzione di una Terza Forza indipendente da cattolici e marxisti. Il tentativo fallì anche in ragione di un posizionamento delle elite industriali, naturale bacino di consenso dei liberali, che preferivano mantenere canali di comunicazione, e di scambio, con la Democrazia Cristiana.
Alle elezioni del 1948, quelle a cui parteciparono insieme all’Uomo Qualunque, il PLI raccolse il 3,8% dei consensi.
Gli anni del centrismo, e quindi della presenza all’interno del governo dei liberali, durano fino al 1953-54. La complicata opera di ricostruzione del Paese, risolta con De Gasperi la questione sul posizionamento italiano all’interno del blocco atlantico, vedrà una svolta con la scomparsa dello statista trentino e con l’elezione alla segreteria della DC di Amintore Fanfani. Fanfani prevedeva per lo Stato un ruolo attivo nell’economia del Paese; uno Stato imprenditore che avrebbe non soltanto governato le dinamiche economiche della fase della ricostruzione, ma che avrebbe anche tratto i frutti dalla mole di denaro attivata attraverso i programmi industriali e il piano Marshall. E’ in quel periodo che nasce il Ministero delle Partecipazioni statali che vide la netta contrapposizione dei liberali, prima guidati da Roberto Lucifero e poi da Giovanni Malagodi.
Malagodi è anche il protagonista di una vera svolta nel PLI. Se da una parte restava difficile l’accordo di governo con la nuova Democrazia Cristiana di Fanfani , con la sua apertura a sinistra e con il dirigismo dello Stato, dall’altra Malagodi tagliò i ponti con monarchici e con la destra post-fascista, avvicinandosi all’idea di un centrismo autonomo, laico e con una propria ragion d’essere; un Partito Liberale che poteva ora guardare con interesse ad una convergenza, se non ancora un’alleanza, con Repubblicani di Pacciardi.
Nel frattempo l’invasione dell’Ungheria da parte dei sovietici portò alla definitiva rottura fra comunisti e socialisti e questi ultimi entrarono a far parte dell’alveo dei partiti di governo. IL governo Fanfani del 1960 si reggeva ancora sul quadripartito centrista di cui era parte il PLI, ma vedeva la novità dell’astensione del PSI.
Nel 1962, ancora una volta Fanfani presidente del Consiglio, l’astensione socialista divenne appoggio esterno e il PLI uscì dal governo.
L’anno successivo alle elezioni politiche il PLI ottenne il massimo storico raddoppiando i suoi voti dal 3,5% del 1958 al 7% del 1963. Il successo elettorale, contemporaneo ad un pesante arretramento della DC passata dal 42,4% al 38,3% era sicuramente dovuto al timore, in particolare degli imprenditori del settore elettrico espropriati con la nazionalizzazione dell’energia, che il Paese precipitasse in una sorta di stallo fra economia di mercato ed economia pianificata dovuto all’avvicinamento della DC al partito socialista.
Tuttavia Malagodi non riuscì a capitalizzare il successo. Il PLI si ritrovò isolato come opposizione di destra e d’altra parte la DC fu abile a sterilizzare i timori di uno spostamento troppo a sinistra.
Il segnale di questa incapacità di sfondare si ebbe alle successive politiche del 1968 quando i voti si fermarono al 5,8%, difatti testimoniando che l’occasione di dare al PLI l’allure di un partito di massa era sparita.
Stretto fra il centrosinistra da una parte e la destra missina, che aveva inglobato anche i monarchici, con cui Malagodi non aveva intenzione di fare nessun accordo, restando fedele alla sua scelta antifascista, il PLI vide erodere il suo consenso a favore della Democrazia Cristiana anche nelle elezioni del 1972. Con il 3,9% nei fatti il PLI era tornato alle dimensioni che aveva durante le elezioni per la Costituente.
Il 1972 aveva visto anche una significativa ripresa del voto di destra che il PLI non aveva saputo cogliere. La minaccia, fra virgolette, missina, comportò uno spostamento a destra della Democrazia Cristiana che ancora una volta drenò voti al PLI. Alle elezioni del 1976 i liberali presero un misero 1,9%, il minimo storico, che impose una riflessione sulla sopravvivenza stessa del partito. Malagodi lasciò il posto a Valerio Zanone col compito di riportare il PLI nell’ambito delle formazioni di governo.
Nasceva così la lunga stagione del pentapartito, con perno sempre sulla Democrazia Cristiana ma con maggioranza formate da socialisti, socialdemocratici, repubblicani e, appunto liberali.
La caduta di consensi effettivamente fu arrestata ma restava il nodo del posizionamento e dell’autonomia del PLI di fronte alla battaglia, interna al governo ma pur sempre battaglia, fra i socialisti di Craxi, ansiosi di posizioni egemoniche, e la Democrazia Cristiana in crisi di identità.
Alle elezioni del 1983 fu tentata la carta dell’alleanza con il Partito Repubblicano in una coalizione laica ma non socialista. Nei calcoli dei promontori i voti avrebbero dovuto raggiungere l’8%, frutto della somma dei consensi dei due partiti alle elezioni europee del 1979. Le urne diedero un responso diverso bloccando la coalizione ad un 6,1% con una perdita secca di 2 punti.
La sconfitta portò alle dimissioni di Zanone con l’elezione prima di Alfredo Biondi e poi di Renato Altissimo.
Il nuovo segretario preferì dunque una rendita di posizione, accontentandosi di posizioni di governo e di sottogoverno e di fatto condannando il partito ad essere poi annoverato fra quelli protagonisti del sistema corruttivo scoperchiato dalle inchieste di Tangentopoli.
Quando le inchieste milanesi rivelarono il sistema di potere che aveva retto il Paese, Altissimo, filosocialista e governista, ne rimase travolto. L’ala politicamente più laica, incarnata da Biondi e Patuanelli tentò di cavalcare l’onda dei referendum di riforma di Segni ma non trovò comunque adeguato spazio per un’offerta politica riconoscibile e autonoma. Anzi, il coinvolgimento non solo di Altissimo nella maxitangente Enimont ma anche del potente ministro De Lorenzo nello scandalo dei fondi alla sanità decretò di fatto la fine della storia del PLI.