Nell’undicesima puntata avevamo parlato della destra storica e del Movimento Sociale Italiano, il partito che, pur ispirandosi al ventennio fascista, era comunque riuscito a coagulare una cultura di destra inserita all’interno delle dinamiche della democrazia parlamentare.
Pur escluso dalla possibilità di diventare forza di governo, il Movimento Sociale aveva in alcune circostanze, specie al mezzogiorno, stretto accordi o comunque condiviso posizioni con la Democrazia Cristiana. Sempre con la DC aveva condotto la campagna contro i referendum su divorzio e interruzione di gravidanza rappresentando parte di quel mondo cattolico meno aperto alla modernità.
Quando a cavallo degli anni 70 e 80 il sistema dei partiti iniziò a mostrare le sue crepe e l’opinione pubblica manifestò sfiducia screscente verso i soggetti politici che l’avevano condotta sin dal dopoguerra, il Movimento sociale tentò di accreditarsi come forza conservatrice e democratica puntando, in ottica di sostituzione dei partiti corrotti, su un essere immune ai vizi della partitocrazia. In altre parole, la conventio ad excludendum che l’aveva escluso da posizioni di governo, diventava con la crisi partitocratica una leva su cui puntare per la ricerca del consenso. I toni di Almirante contro la partitocrazia si fecero nella prima parte degli anni 80 particolarmente aggressivi, mitigandoli peraltro, con il riconoscimento democratico degli storici avversari politici.
Nel 1984, quasi a certificare questo ingresso nell’agone democratico, andò a rendere omaggio alla tomba di Enrico Berlinguer.
Alle elezioni del 1983 il partito aveva ottenuto un incoraggiante 6,8% mentre in ottica europea era stato promotore di alleanze con altri partiti di destra a formare il cosiddetto gruppo delle eurodestre.
Non si trattava di un cammino inarrestabile, ma stava significare che la destra storica, quella erede del fascismo, ma anche quella che si era unita ai monarchici della destra nazionale, era ora pienamente legittimata ad essere protagonista del cambiamento politico.
Nel 1987 le condizioni di salute di Almirante si aggravarono e il segretario che aveva tentato di conciliare democrazia con tradizione indicò quale suo potenziale successore un giovane Gianfranco Fini, cresciuto nel Fronte della Gioventù, ma, come ebbe a dire lo stesso Almirante dopo l’esito del congresso, non etichettabile come fascista in quanto nato dopo la fine del ventennio.
A contendere la segreteria durante il congresso che si tenne a Sorrento del settembre del 1987 fu soprattutto Pino Rauti; rappresentante dell’ala nostalgica della destra nazionale e già protagonista di un tentativo di scissione con Ordine Nuovo e in precedenza coinvolto e arrestato nell’ambito dell’inchiesta sui nuovi FAR (fasci di azione rivoluzionaria).
La prima segreteria Fini durò fino al congresso del 1990 dove fu sconfitto proprio da Rauti, ma questi, a seguito dei pessimi risultati alle elezioni amministrative del 1991 fu costretto a dimettersi.
A succedergli fu ancora una volta Fini che sconfisse il rautiano Mennitti.
Siamo dunque arrivati ai primi anni 90, gli anni della tempesta Tangentopoli, dei referendum elettorali e della fine della prima repubblica.Il Movimento Sociale di Fini fu sostanzialmente risparmiato dalle accuse di corruzione (sebbene non completamente immune) e la retorica usata da Almirante negli anni 80 contro i vizi della partitocrazia ebbe modo di essere rilanciata da Fini quando quei vizi si rivelarono in tutta la loro enorme portata.
Per far fronte ai mutati scenari e per intercettare anche le istanze conservatrici di una parte del Paese che non si riconosceva nell’eredità fascista, dalle colonne de Il Tempo, il politologo di destra Domenico Fisichella lanciò l’idea di una costituente di destra, di un’alleanza dei conservatori, missini ma anche repubblicani cattolici e liberali, che sin contrapponesse all’alleanza progressista che andava formandosi a sinistra. Fu così che nacque l’idea di Alleanza Nazionale.
Costituita formalmente nel 1994 all’indomani dell’ottimo risultato di Alessandra Mussolini alle elezioni di Napoli, dove non fu eletta sindaco ma ottenne un più che significativo 31%, e soprattutto l’appoggio di Berlusconi a Gianfranco Fini nella corsa al Campidoglio; un vero e proprio sdoganamento da parte di colui che con la nascente Forza Italia avrebbe raccolto le eredità di Democrazia Cristiana e PSI come formazione di governo; doveva all’inizio essere non un partito bensì un contenitore delle istanze conservatrici di una generica destra liberale. Il battesimo di AN fu l’ingresso nel Polo del Buon Governo voluto da Berlusconi.
L’interesse che suscitò, con la nascita dei molti circoli, portò Fini, nel 1995 alla Svolta di Fiuggi.
Il Congresso, tenutosi dal 25 al 29 Gennaio sancì la fine della storica denominazione di Movimento Sociale Italiano e il cambio di alcuni dei paradigmi storici della destra italiana:
- Si abbandonava l’antiamericanismo per sostituirlo con un solido ancoraggio al patto atlantico
- Veniva bandita l’idea economica del corporativismo in favore di un liberalismo di mercato controllato
- Si cancellavano le spinte nostalgiche in favore di una modernità inserita in contesto conservatore
- Si manteneva l’identitarismo nazionale senza tuttavia scadere nel nazionalismo a tutti i costi.
Non tutti a destra presero bene la svolta. Lo scrittore Marcello Veneziani definì il passaggio da Movimento Sociale ad Alleanza Nazionale come sbrigativa liquidazione del fascismo per via urinaria.
Pino Rauti, ovviamente contrario alla svolta e da sempre esponente della componente che oggi definiremmo rossobruna, uscì e fondò con insieme a Giorgio Pisanò, già protagonista della corrente Fascismo e Libertà, il Movimento Sociale Fiamma Tricolore.
Ma la scissione fece bene a Fini, diventato nel frattempo fedele alleato di Berlusconi e male a Rauti, relegato a ruolo di comprimario e probabilmente portatore di idee superate dalla storia.
Alle elezioni del 1996, quelle successive al cosiddetto ribaltone, AN prese un importante 15,7% mentre Rauti si fermò ad un misero 0,9%
Il successo di Alleanza Nazionale fu però effimero. L’abbraccio con Berlusconi, braccato dalla magistratura e accusato non solo di corruzione ma anche di pesanti conflitti di interesse, mal si conciliava con le posizioni di un partito che in piena tangentopoli aveva rumorosamente parteggiato per il cosiddetto partito dei giudici.
Consapevole dell’imbarazzante alleanza alle europee del 1999 Fini si stacco dal Cavaliere per dare vita ad un cartello elettorale con Mario Segni il cui simbolo era un elefantino blu, storica icona dei repubblicani americani. Il risultato delle urne fu disastroso: AN perse più di un terzo dei voti e Fini, che nel governo Berlusconi aveva avuto addirittura la vicepresidenza del consiglio, un traguardo impensabile per chi era cresciuto politicamente e aveva militato in un partito oggetto di conventio ad excludendum, capiì che per AN non esisteva alternativa all’alleanza con il cavaliere.
Come già era avvenuto per la Lega di Umberto Bossi, il sistema politico, e naturalmente una buona dose di cinismo, rendeva impossibile avventure politiche al di fuori del polo di centrodestra che ruotava intorno a Forza Italia.
L’ingresso nella politica in doppio petto, con il corollario di contese per posti nei cda della RAI e delle società a partecipazione pubblica, non poteva non alimentare critiche in chi covava comunque nostalgie per una purezza (l’espressione è utilizzata con le virgolette) neofascista.
Una ulteriore rottura si ebbe quando Fini nel 2001 andò in vistita a museo della Shoa e dichiarò, prendendo finalmente in modo netto le distanze dal passato, le responsabilità fasciste nella questione delle discriminazioni razziali.
A lasciare AN furono Alessandra Mussolini (che poi negli anni successivi si trasformerà, chissà quanto consapevolmente, in paladina dei diritti) e Francesco Storace.
I problemi con l’ingombrante alleato si trascinarono per tutto il decennio, alternando critiche, talvolta feroci, a riavvicinamenti e creando malumori interni di una fronda, formata da Larussa Gasparri e Matteoli che definirono Fini “uno da prendere a schiaffi.
E’ importante questo passaggio non tanto per gli aspetti da gossip, quanto per dare una chiave di lettura agli avvenimenti successivi che portarono alla caduta di Fini e al posizionamento di due dei tre cospiratori: La Russa e Gasparri.
Lo spostamento progressivo di Fini verso posizioni democratiche, denunciando il crescente accentramento dei poteri in Berlusconi, e liberali, emblematiche le sue parole sul caso Englaro, lo portarono via via ad uno scontro sempre più esplicito con l’alleato e con gli oppositori interni.
Nel 2010 insieme ad un gruppo di parlamentari firmò un documento di critica al Berlusconismo e il cavaliere rispose chiedendo esplicitamente la sua rimozione dalla carica di presidente della Camera.
I giornali di area presero violentemente posizione contro Fini. Il Giornale, Libero e Panorama montarono una campagna di stampa contro l’uso di un appartamento a Montecarlo lasciato in eredità ad Alleanza Nazionale, venduto ad una società off shore e affittato a Giancarlo Tulliani cognato di Fini.
Il 22 aprile 2010 lo strappo con il cavaliere si consumò in diretta tv durante l’assemblea del Partito delle Libertà. Fini denunciò gli attacchi di Berlusconi alla magistratura e questi gli rispose di dimettersi dalla presidenza della camera e formare un nuovo partito. La ulteriore risposta di Fini è ricordata quasi da tutti:
Che fai, mi cacci?
Alleanza Nazionale si presentò alle elezioni col proprio simbolo ancora nel 2013 retto da Ignazio La Russa. Da quell’esperienza nacque poi Fratelli D’Italia.
Ma prima di arrivare a Giorgia Meloni dobbiamo fare una pausa comprendere quali sono le radici del populismo e come il populismo, declinato in varie forme è diventato il protagonista della politica italiana.
Sarà questo il tema della prossima puntata.