Roma, primo giugno 2018. Un quasi sconosciuto Giuseppe Conte si presenta davanti alle telecamere dopo aver ricevuto l’incarico di formare il governo all’indomani del voto delle politiche che ha visto l’affermazione del Movimento 5 stelle quale primo partito e le lunghe consultazioni che si sono concluse con la stipula del Contratto per il Governo del Cambiamento con la Lega di Matteo Salvini. Il discorso è scarno, le parole vengono masticate, è palpabile l’imbarazzo, forse l’emozione, del presidente incaricato.
Conte pronuncia questa frase: sono professore ed avvocato…mi impegno ad essere l’avvocato difensore del popolo italiano.
Non sappiamo naturalmente se Conte fosse consapevole del significato politologico di quelle parole o se il suo volesse essere sono un omaggio alla forza politica, dichiaratamente populista, che l’aveva scelto, non senza riserve e tentennamenti, per quel delicato incarico. Tuttavia in quelle parole, apparentemente scontate (perché quale premier, o politico, non vuole difendere gli interessi del popolo) c’è una buona parte dell’essenza del populismo.
In questa puntata cercheremo di delineare le caratteristiche tipiche dei partiti, più spesso movimenti, populisti; quali sono le analogie e le convergenze dei diversi movimenti populisti; i tratti comuni che rendono il populismo riconoscibile; le radici storiche, e quali sono, se ci sono, le condizioni per l’affermarsi ad un certo punto dei movimenti populisti. Cercheremo infine di individuare, attraverso i lavori puntuali di Flavio Chiapponi e Marco Tarchi se il populismo italiano moderno si differenzia dai populismi del secolo scorso e se il Movimento 5 Stelle, la cui storia racconteremo nel prossimo episodio, è stato nella sua prima lunga fase fino all’allontanamento di Grillo un episodio isolato e non replicabile.
Nel maggio 1967 alla London School of Economics si svolse un convegno in cui politologi e scienziati della politica venuti da tutto il mondo si interrogarono su cosa fosse il populismo politico. Il titolo del convegno era esplicito: to define populism.
Vi parteciparono studiosi i cui lavori hanno ridefinito l’ambito di ricerca nella scienza politica: Isahia Berlin, Margaret Canovan, Peter Wiles e tanti altri.
Contrariamente a quello che generalmente si pensa il populismo non è un fenomeno recente della politica ma nasce in modo pressoché sincrono allo sviluppo dello stato moderno e della democrazia. Il convegno del 1967 fu il tentativo di raccogliere ed analizzare le diverse esperienze populiste e estrarre delle caratteristiche comuni.
Uno dei primi casi di populismo studiati dalla scienza politica è quello dei Narodniky. Sorto in Russia verso gli anni 30 dell’800, e animato da intellettuali come Kireevskij e Aksakov, si riprometteva di riscattare il popolo dalla autocrazia zarista in chiave collettivista. Rivolto principalmente alle classi contadine oppresse da una società che era sostanzialmente feudale, delineò una nuova grammatica concettuale e introdusse espressioni, che poi ritroveremo sotto varie forme in tutti i populismi, come Narodnalja Volija “volontà del popolo”. Esisteva dunque una volontà collettiva del popolo, impalpabile e indefinita, eppure presente, che non era rappresentata dal ceto politico. Se Marx aveva teorizzato la volontà delle classi, i Narodniky teorizzavano la volontà e le aspirazioni del popolo russo in quanto popolo non in quanto rappresentante di una determinata condizione sociale o in quanto frutto di somma di aspirazioni individuali. Il popolo stesso, tutto il popolo, era corpo sociale. Non c’era una distinzione fra abitanti delle città e contadini, fra studenti ed operai, fra classe media (in realtà nella Russia dell’epoca quasi assente) e servi della gleba. Obiettivo di questo popolo era liberarsi dalla schiavitù imposta dai nobili. Una tensione, un movimento, unidirezionale, dal basso verso l’alto.
Nelle esperienze successive di tutti i movimenti populisti, anche quelli che, vedremo, sfoceranno in autocrazie o dittature, questa unidirezionalità dal basso verso l’alto ci sarà sempre; cambieranno gli attori che stanno in alto, dalla nobiltà alle elitè fino ai tecnocrati ai burocrati, ma il tratto comune populista sarà sempre il medesimo.
Com’è facilmente intuibile il movimento dei Narodniky subì una feroce repressione da parte dell’esercito e della polizia zarista e alla fine si dissolse.
Quasi contemporaneamente all’esperienza russa, dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, si formarono analoghi movimenti populisti. Nel caso americano presero la forma della Farmer Alliances in cui i proprietari terrieri, specialmente quelli del sud, si ribellavano ad una politica dalla quale non si sentivano rappresentati.
I farmers riuscirono anche a candidare alla presidenza un loro esponente, o per meglio dire un politico che ne cavalcò il sostegno tentando di incarnare, e anche questo è un tratto comune di tutti i populismi, l’identificazione quasi messianica del capopopolo. Alle elezioni del 1892 James Weaver, a capo del Partito Populista (PEOPLE’S PARTY), si contrappose al repubblicano Harrison e al democratico Cleveland ottenendo l’8,51% e ottenendo 22 elettori nei 44 stati in cui si votò.
L’esperienza di Weaver terminò quando venne a patti con il Partito Democratico, tradendo, per così dire, gli ideali populisti.
Esperienza populiste sono naturalmente quelle sudamericane, di qualunque colore, che non tratteremo per questioni di spazio ma per le quali rimandiamo agli studi di Loris Zanatta e Gino Germani.
E in Europa come si manifesta il populismo?
Sotto certi aspetti fu sicuramente populista il fascismo dove c’erano continui richiami al popolo e continue accuse alle elite italiane ed europee. Mussolini sostituì via via il concetto di popolo con quello di nazione ed esaltò un altro concetto comune a molte forme di populismo: se il popolo, o la nazione, è uno, identificato ed indivisibie, che bisogno c’è che a rappresentarlo siano molti partiti? La volontà del popolo trova soddisfazione, massima soddisfazione, se un solo soggetto, o un solo uomo, lo rappresenta tutto. L’identificazione, anche qui messianica, del condottiero, del capo, del duce con il suo popolo, di cui è allo stesso tempo servo e padrone, è totale.
Scrive Zanatta: “se il popolo è un organismo e tutti gli organi devono cooperare alla sua armonia, la separazione dei poteri è di troppo. Perché dividere ciò che Dio ha voluto unito?”
Fu forse proprio l’automatica associazione del populismo al totalitarismo a frenare lo svilupparsi di movimenti populisti dopo la seconda guerra mondiale. Populisti erano stati il fascismo in Italia, il nazionalsocialismo in Germania; in Spagna era al potere Franco, in Portogallo Salazar, che aveva affiancato al concetto di popolo l’identificazione con l’anima cattolica della nazione.
I due tentativi più vicini a noi dopo la seconda guerra mondiale furono il Movimento dell’Uomo Qualunque in Italia e l’UFF di Pierre Poujade in Francia.
L’UOMO QUALUNQUE di Guglielmo Giannini aveva senza dubbio i caratteri del populismo, ma si manifestava più per l’insofferenza generica dei cosiddetti “cafoni”, qui il termine usato da Giannini non è spregiativo, contro le elite, che per la proposta politica. Quello dell’Uomo Qualunque fu più che altro un risentimento verso i fatti che avevano scosso il Paese, la guerra, l’occupazione, l’invasione. Il motto di Giannini, sintetico ed efficace, rivolto alle classi dirigenti era lasciateci in pace, non rompeteci i coglioni. Dopo un significativo risultato alle elezioni per la Costituente, il Fronte dell’uomo Qualunque prese 1 milione duecentomila voti pari al 5,27% e corrispondente a 30 seggi, l’iniziativa di Giannini si dissolse rapidamente e non fu più riproposta in quelle forme.
Più articolata è la storia dell’UFF di Pierre Poujade. Formatosi nella destra francese e sostenendo la Repubblica di Vichy durante l’occupazione tedesca, Poujade salì agli onori delle cronache quando nel 1953 alla guida di un movimento sindacale che si ribellò all’esazione delle tasse a danno di piccoli commercianti e artigiani.
Il poujaidsmo ha tutti i caratteri tipici che poi ritroveremo nei diversi populismi moderni, ne è quasi l’archetipo.
Non movimento di popolo ma movimento di una parte del popolo contro il potere costituito; interessi di categoria dunque in una contrapposizione che non era più dunque genericamente identificata ma che opponeva una classe, quella lavoratrice più debole e meno sindacalizzata, contro l’uso della coercizione esercitata in via esclusiva degli esattori delle tasse e per conseguenza contro le organizzazioni politiche che quella classe non intendevano difenderla. Oggetto delle accuse di Poujade non era solo il potere costituito ma anche gli altri partiti politici.
Il Primo movimento fondato da Poujade fu infatti L’Unione di difesa dei commercianti e degli artigiani UDCA. Parole d’ordine erano il Paese Reale contro il Paese Legale.
“Io sono come tutti voi, disse Poujade in un comizio, un piccolo cartolaio che si fa beffe della politica e di tutti i raggruppamenti che finiscono in “ista” e ancora “la nostra patria è la nazione, non il parlamento”.
E poi “noi siamo il movimento dell’onestà, della probità, della dirittura di fronte agli avvoltoi, ai politicanti, ai maneggioni”.
Quando Poujade trasforma il sindacato in partito si ripromette di spazzare via la classe dirigente sostituendola con gente comune: “ci vorrebbe piuttosto, per governarci, un vero commerciante, un buon metalmeccanico, un buon salumiere. Non sarebbero polytechniciens, ma sani di corpo e di mente”
E sentendo queste parole la nostra mente non può non correre all’uno vale uno del Movimento 5 stelle e alla casalinga, che sa far di conto, al posto del ministro dell’economia. Beppe Grillo non ha inventato nulla, ha solo copiato qua e là da esperienze precedenti.
Alle elezioni per l’assemblea nazionale del 1956 i poujaidisti elessero ben 50 parlamentari. Fra questi non c’era Poujade, a rimarcare il disprezzo per le istituzioni della repubblica. E anche in questo caso le analogie con il grillismo sono eclatanti.
A differenza di altri movimenti populisti l’UFF era però chiaramente da una parte dell’orizzonte politico; era chiaramente di destra e al suo interno si formarono e militarono alcuni dei principali attori della politica nazionalista degli anni successivi, fra cui Jean Marie Le Pen.
Il declino di Poujade arrivò per l’incapacità congenita di darsi una struttura, in altri termini per tradurre in azione istituzionale le spinte protestatarie. Molti parlamentari si dimisero per formare altri partiti e l’emergere della figura di De Gaulle svuotò l’azione politica delle altre destre francesi.
Sempre la protesta contro l’esosità del fisco fu all’origine di un altro tentativo, questo in Danimarca, che si sviluppò a partire da 1972. L’avvocato Moglens Glistroup fu condannato per essersi rifiutato di pagare le imposte e l’ondata di simpatia che si generò sul suo caso lo indusse a formare un partito, il Partito del Progresso, che raccolse nelle elezioni del 1973 il 16% dei voti.
Nel 1981 in Grecia il populismo riuscì anche ad andare al governo con il Pasok di Adreas Papandreou mentre nello stesso periodo il Front National di Le Pen ottenne il primo significativo risultato elettorale.
Nei suoi studi sul Margaret Canovan divise i populismi in due macrocategorie: le dittature populiste e le democrazie populiste.
Nelle prime un capo carismatico, investito della volontà popolare se ne fa interprete assoluto e in ragione di quest’investitura assume il controllo del Paese liberandosi delle elites di governo. Egli agisce in nome proprio per conto del popolo. Ogni contrasto a quest’azione è contrasto al popolo. Avviene, o per tale viene spacciata, una identificazione sincretica fra il capo e il suo popolo e fra il popolo e suo capo.
A supporto di questa tesi la Canovan porta alcune evidenze empiriche: il cesarismo, Napoleone, i governi peronisti. Ma se in questi casi l’individuazione del populismo è intuitiva, un altro caso, recente, spiega meglio cosa intendesse la Canovan.
E’ la vicenda del governatore della Louisiana Huey Long che fra il 1928 al 1932 in nome del popolo si mise al di sopra della legge, governando quello Stato con continue violazioni della costituzione, delle leggi federali e di quelle statali. Il campione del popolo, così si definì, mise in piedi un sistema di patronage per finanziare le sue iniziative di welfare. Ma spazzò via ogni forma di dissenso e fece in modo che chi non lo sosteneva venisse allontanato dal posto di lavoro.
Morì assassinato nel 1935 quando era senatore.
Nella democrazia populista il governo del popolo si compie attraverso strumenti di democrazia diretta quali il referendum e le leggi di iniziativa popolare. Il populismo, in questa declinazione è uno stato ideologico più che una forma di governo. Il politologo Peter Mair aggiunge qualche altro elemento a questa costruzione. Nelle democrazie moderne il collegamento fra cittadini e istituzioni avviene mediante la mediazione dei partiti che sintetizzano i bisogni dei cittadini e se ne fanno interpreti.
L’istituzionalizzazione dei partiti, intesa come progressiva identificazione con le istituzioni che dovrebbero governare su mandato dei cittadini, fa sì che le scelte di governo, originariamente contrapposte per motivi identitari e ideologici, rendano le decisioni simili o addirittura coincidenti perdendo la spinta originaria proveniente dal mandato popolare.
In questo senso il populismo è una reazione al tradimento dei partiti e al rapporto fra governati e governanti.
Spesso, osserva Mair, un indicatore di uno spostamento verso una forma di regime di democrazia populista è rappresentato dall’allontanamento dei cittadini dalla politica, dall’apatia verso i processi elettorali. I partiti, i mediatori, perdono la fiducia dei loro mandanti, gli elettori.
Per farsi interpreti delle istanze del popolo, i partiti populisti abbandonano le basi ideologiche, non pretendono di rappresentare una o più categorie ma aspirano a rappresentarle tutte, essendo il popolo visto come un corpo unico con mutevoli esigenze; sono spesso dunque partiti catch all.
Paul Taggart parla di impalpabilità dei populismi: “il populismo rappresenta un oggetto sostanzialmente impalpabile che si distingue per una scivolosità che non consente di afferrarlo”.
Peter Wiles parla di sindrome populista caratterizzata dal camaleontismo delle idee.
Ives Meny e Yves Surel, due fra i più prestigiosi studiosi dei fenomeni populisti individuano fra i tratti comuni l’ambiguità e l’evanescenza: il populismo, dicono non costruisce né una teoria né un insieme di pratiche. Il termine populismo è già di per sé ambiguo, evanescente, polisemico. Il popolo è una realtà immaginata e può assumere diverse forme, dunque il populismo vi si adatta. Ma essendo interpretato come una entità omogenea universale atemporale, le costruzioni artificiali rappresentate dalle istituzioni, compreso il costituzionalismo, ne comprimono la forza vitale, ne mortificano i bisogni. Ecco allora il populismo assume carattere rivoluzionario e tende ad un ritorno ai primordi, alla purezza delle origini, ad una completa rigenerazione.
Le difficoltà ad identificare e classificare il populismo sotto un’unica chiave di lettura portarono Isahia Berlin ad elaborare il cosiddetto complesso di Cenerentola: ovvero il populismo è magmatico, scivoloso, cangiante; si possono trovare tante corrispondenze in una forma di classificazione ma non si troverà una classificazione che vi si adatti perfettamente.
Più facile forse, trovare dei tratti comuni nei vari populismi, soprattutto a livello comunicativo.
Partiti e Movimenti populisti parlano per il popolo e in nome del popolo. Francisco Panizza individua tre tratti comuni nella comunicazione populista:
- Le generalizzazioni empiriche: il populista fa riferimento ad esempi che supportano la propria teoria ma lo fa in modo aspecifico e vago
- Le spiegazioni storicistiche: nella comunicazione vi è quasi sempre un richiamo al passato, ad una grandezza perduta, ad un tradimento delle origini
- Le interpretazioni sintomatiche: il quadro sociale di riferimento è sempre caratterizzato da una contrapposizione dicotomica: il popolo contro le elites, la politica contro la burocrazia, il paese reale contro il paese immaginato
Raffinando ulteriormente il livello di dettaglio Flavio Chiapponi aggiunge la sacralizzazione del popolo, la ribellione contro le classi dirigenti e l’antagonismo verso le istituzioni
Ne deriva secondo Linz un’ultima, e forse definitiva conseguenza: il populismo non è un’ideologia, bensì una mentalità, uno stato d’animo perché la mentalità, a differenza dell’ideologia, è priva di forma.
Ancora, il popolo si esprime in un gergo semplice, immediato, di facile comprensione e come abbiamo visto utilizza esempi grossolani. Chi non rappresenta il popolo nasconde il proprio inganno verso il popolo attraverso la complessità, il linguaggio tecnico, le procedure burocratiche.
Negli anni che stiamo vivendo i fenomeni populisti si sono moltiplicati. Se dopo la fine della seconda guerra mondiale gli unici esempi significativi erano quelli citati di Francia Italia e Danimarca, con caratteristiche le une diverse dalle altre, nell’ultimo ventennio partiti e movimenti populisti sono comparsi in tutti i Paesi Europei. Marco Tarchi ha contato la presenza alle elezioni europee del 2009 e del 2014 di 23 formazioni politiche sicuramente classificabili come populisti; ma tratti populisti sono comparsi, almeno nella comunicazione, anche in partiti tradizionali ed ideologici.
Molto altro si potrebbe aggiungere ma per questioni di spazio rimando all’ampia bibliografia che allagherò alla fine della serie. Serie che nella prossima puntata traccerà la storia del Movimento 5 Stelle dalle origini fino a quel Giuseppe Conte da cui siamo partiti; e in quella successiva racconterà della Lega e di Fratelli d’Italia.