Durante il nostro percorso lungo la storia dei partiti politici abbiamo già incontrato più volte il partito socialista. Lo abbiamo incontrato nei primi esperimenti associativi postunitari, l’abbiamo incontrato prima e dopo la grande guerra, l’abbiamo incontrato nella scissione di Livorno, nelle origini del fascismo; l’abbiamo infine ritrovato nella lotta partigiana e nell’Assemblea costituente.
Il Partito socialista italiano è stato dunque un indubbio protagonista, spesso tormentato, della politica del Paese. Sempre in bilico fra massimalismo e progressismo il socialismo italiano è stato frequentemente oggetto di confusioni, divisioni, tormenti ideologici e ricerca di una propria…
Durante il nostro percorso lungo la storia dei partiti politici abbiamo già incontrato più volte il partito socialista. Lo abbiamo incontrato nei primi esperimenti associativi postunitari, l’abbiamo incontrato prima e dopo la grande guerra, l’abbiamo incontrato nella scissione di Livorno, nelle origini del fascismo; l’abbiamo infine ritrovato nella lotta partigiana e nell’Assemblea costituente.
Il Partito socialista italiano è stato dunque un indubbio protagonista, spesso tormentato, della politica del Paese. Sempre in bilico fra massimalismo e progressismo il socialismo italiano è stato frequentemente oggetto di confusioni, divisioni, tormenti ideologici e ricerca di una propria collocazione autonoma all’interno del panorama politico nazionale.
All’indomani della costituzione della Repubblica, quando terminata la guerra e risolta la questione istituzionale la sinistra italiana si trovò davanti al bivio fra fedeltà al socialismo sovietico e adesione e inclusione nei processi della democrazia liberale, il partito socialista subì una nuova scissione. Nel gennaio 1947 dai socialisti del Partito socialista di unità proletaria si staccò, di nuovo, l’ala riformista di Giuseppe Saragat, che andò a fondare il Partito socialista dei Lavoratori Italiani, diventato poi Partito socialista democratico Italiano. Il timore, fondato di Saragat, era legato non solo all’inserimento dell’Italia nei processi di ricostruzione post bellica, ma anche e soprattutto alla limitazione dell’autonomia che Mosca avrebbe concesso ai socialisti italiani.
Per la democrazia cristiana di De Gasperi che si proponeva come guida del Paese nel percorso verso l’alleanza atlantica, la scissione socialista fu fondamentale ove si pensi che la sinistra dell’epoca, formata da partito socialista e partito comunista rappresentava il 40% del Paese.
Abbiamo già detto delle elezioni del 1948 ma val la pena tornarci su. Nenni puntava ancora nell’ineluttabilità dell’unione con i cugini comunisti, considerando le differenze con i comunisti trascurabili al cospetto della comune lotta delle masse proletarie contro il capitalismo.
Alle elezioni del 1948 i due partiti formarono il Fronte democratico popolare confidando, certamente anche sull’onda della lotta partigiana contro il nazifascismo, su una vittoria se non facile sicuramente possibile.
I risultati deludenti rivelarono a Nenni, più ancora che a Togliatti, l’esistenza di un’Italia, specie nel meridione, che non aveva metabolizzato le ragioni della “rivoluzione” socialista e preferiva piuttosto affidarsi alla tranquillizzante continuità della cultura cattolica.
Il Fronte Popolare prese il 31% dei voti, e all’interno della coalizione il voto attribuibile ai socialisti di Nenni appena il 9%.
Il partito di Saragat, unito a ciò che restava del Partito d’Azione nell’Unione Socialista, prese il 7,1%.
A penalizzare Nenni fu senza dubbio la polarizzazione, spesso violenta, del voto fra atlantisti cattolici e socialismo bolscevico. Il PSI ne restò schiacciato quasi privato di una identità che voleva rappresentare la mitigazione delle spinte rivoluzionarie comuniste ma che a ben vedere risultò impotente di fronte alla radicalizzazione della lotta politica.
L’esito del voto del ’48 portò ad aspri scontri fra comunisti e socialisti circa la responsabilità della debacle elettorale. Allo scontro con i cugini si aggiunsero in casa socialista le polemiche interne che portarono alle dimissioni di Nenni e all’elezione alla segreteria, per un breve periodo di Alberto Jacometti.
Tornato segretario Nenni rifiutò di fare autocritica. All’ammirazione per l’URSS, che non mancava di sottolineare, si aggiungeva la quasi totale dipendenza dai finanziamenti che il PSI riceveva tramite il Partito Socialista polacco, che era apertamente filosovietico, e persino da quelli che partivano da Mosca con destinazione PCI e venivano in parte usati dai comunisti per sostenere finanziariamente la struttura del partito socialista.
Solo nel 1953, con la morte di Stalin e l’inizio di un processo di distensione internazionale, il PSI di Nenni riuscì a trovare un ambito di manovra, che non era più quello subalterno al comunismo, bensì quello dell’alternativa di sinistra.
Gli anni 50 furono per Nenni gli anni di una parziale apertura all’atlantismo (recidendo così il legame storico con i comunisti) e il riavvicinamento a Saragat, con la conseguenza di mettersi nell’orbita dei partiti candidati a posizioni di governo per quel periodo che verrà ricordato con il nome di stagione del centro-sinistra.
Questo clima più favorevole per i socialisti si tradusse in un aumento dei consensi che passarono dal 9% nelle elezioni del 1948 al 12% in quelle del 1953 fino al 14,2% in quelle del 1958.
Fra i socialisti iniziò a farsi spazio una parola, che era anche un programma politico, che non si pronunciava dai tempi di Filippo Turati: riformismo.
Era riformista l’idea che ci potesse essere un socialismo separato dal comunismo; era riformista l’idea che le lotte del proletariato dovessero arrivare non alla conquista del potere ma alla conquista dei diritti; era riformista l’idea che per farlo fosse necessario arrivare al governo e quindi stringere un patto con il perno della politica italiana, ovvero la Democrazia Cristiana.
La nazionalizzazione delle imprese elettriche offrì la prima concreta prova di questa nuova strategia: da una parte i socialisti non rischiavano di essere tacciati come traditori che erano passati alla difesa del capitalismo; dall’altra, insieme al riavvicinamento con Saragat, li mise in sicurezza rispetto alla conventio ad excludendum cui era sottoposto il PCI.
I fatti di Ungheria del 1956 fecero il resto.
Nel 1962 nacque il primo governo di centrosinistra con i socialisti, non ancora nella compagine, che votarono per un appoggio esterno. Appoggio, che come abbiamo già detto in altra puntata, comportò l’uscita dei liberali.
Le elezioni del 1963 videro un leggero arretramento dei socialisti in favore dei socialdemocratici. Nel 1966 le due formazioni tentarono anche una riunificazione dando vita al Partito Socialista Unificato ma l’unificazione restò più sulla carta che nei fatti. Le elezioni del 1968 non premiarono questo tentativo. Il 14,5% era molto lontano dalla somma algebrica dei voti dei due partiti e a farne le spese furono più i socialisti che i socialdemocratici.
Il contesto socioeconomico della fine degli ani 60, le tensioni nelle fabbriche e il movimento studentesco diedero nuova linfa al PCI ma mentre i socialdemocratici avevano fretta di ritornare su posizioni centriste, il PSI si trovò ancora una volta costretto fra la nuova avanzata della sinistra comunista e le posizioni filogovernative. Il PSI si ritrovò in una nuova e profonda crisi di identità che portò Nenni a farsi di parte per lasciare il posto prima a Francesco De Martino, poi a Giacomo Mancini, poi di nuovo a De Martino che resse il partito fino al 1976.
I primi anni 70, fino al congresso del 1976, furono anni difficili per il Partito Socialista. De Martino soprattutto, incarnò quella crisi di identità che aveva percorso il PSI durante buona parte della sua storia. Alternativo al comunismo ma non abbastanza lontano da esso per via di valori condivisi, il PSI non aveva una propria collocazione autonoma, e in un sistema politico basato sulla centralità della Democrazia Cristiana aveva preclusi anche gli spazi al centro. Per ritrovare vigore occorrerà appunto un cambio di paradigma e la crisi del centrosinistra.