1919.
La Grande Guerra non aveva solo spezzato vite e lacerato una fragile democrazia in costruzione, aveva anche creato profonde divisioni all’interno dei corpi sociali del Paese. La feroce contrapposizione fra neutralisti ed interventisti ebbe conseguenze anche a guerra finita e sebbene fosse stata una vittoria, aveva alimentato nuove e potenti tensioni. Il mito della Vittoria Mutilata si fece strada in quella parte di opinione pubblica che riteneva non fosse stato rispettato il Patto di Londra del 1915 in base al quale all’Italia sarebbe dovuta andare, a vittoria raggiunta, l’intera Venezia giulia e la Dalmazia settentrionale.
Mussolini, che come abbiamo visto era passato da una posizione neutralista ad una feroce posizione interventista che ne aveva causato l’espulsione dal Partito Socialista, ebbe a dire Se la vittoria fu mutilata una volta, non è detto che possa essere mutilata un'altra volta.
Il 23 marzo 1919 a Milano, in Piazza San Sepolcro, Mussolini radunò un piccolo gruppo di sostenitori dell’intervento bellico, che vedevano nella guerra la base morale per la costruzione di una nuova società. C’erano gli Arditi di Ferruccio Vecchi, i futuristi di Marinetti, esponenti del socialismo rivoluzionario. Era un gruppo sparuto, non più di 300 persone, e non era neanche un partito bensì per lo più un movimento che rifiutava l’ordine tradizionale, gli equilibri di potere e il parlamentarismo.
La pubblicazione del Manifesto di San Sepolcro, avvenuta solo 3 mesi dopo, testimonia la confusione e la eterogeneità e anche la vaghezza degli obiettivi.
Nel manifesto si confondevano rivendicazioni socialiste, come la giornata lavorativa di otto ore o la partecipazione degli operai alla gestione delle fabbriche, ad altre tipiche della destra nazionale.
Se dunque era poco chiaro cosa i sansepolcristi volessero, era all’opposto chiaro cosa non volessero.
Si legge nel preambolo:
Italiani!
Ecco il programma di un movimento sanamente italiano. Rivoluzionario perché antidogmatico e antidemagogico; fortemente innovatore perché antipregiudizievole. Noi poniamo la valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti. Gli altri problemi: burocrazia, amministrativi, giuridici, scolastici, coloniali, ecc. li tracceremo quando avremo creata la classe dirigente.
Erano nati i Fasci Italiani da Combattimento
Qualche giorno dopo dalle pagine de Il Popolo d’Italia Mussolini scrisse: “noi dichiariamo guerra al socialismo, non perché socialista ma perché è stato contrario alla nazione”
I socialisti dunque erano i primi nemici, seguiti dagli altri neutralisti, i cattolici e i liberali giolittiani.
L’avversione per la grigia inclinazione al compromesso parlamentare era feroce. Il parlamento era il luogo in cui “la cricca dominante – sono parole di Mussolini – corrotta e imbelle prende decisioni alle spalle del popolo” e se il Parlamento era il luogo dove si perpetrava l’inganno, le elezioni non potevano che essere lo strumento dell’inganno, le schede elettorali dei “ludi cartacei”
Il 15 aprile 1919, prima dunque della pubblicazione del manifesto, i fasci diedero inizio alla violenza come metodo di lotta politica assaltando la sede dell’Avanti.
Nonostante i toni e le azioni i Fasci italiani da combattimento all’inizio non destarono particolare attenzione. La lista che si presentò alle elezioni di Milano dello stesso anno prese pochi voti e le liste in cui parteciparono nelle altre città settentrionali non ebbero voti a sufficienza a farli eleggere. Il tentativo di radicarsi sul territorio nazionale attraverso la costituzione di sezioni andò malissimo per mancanza di iscritti. Sembrava insomma un esperimento fallito sul nascere.
Furono probabilmente gli scioperi e le tensioni del biennio rosso, a dare nuove opportunità ai Fasci da Combattimento.
Trieste, 13 luglio 1920, i fascisti assaltano la Narodni Dom, la Casa del Popolo slovena. La causa, o forse il pretesto, fu la morte di Giovanni Nini, un diciassettenne che assisteva ad un comizio, in circostanze mai chiarite. I Fascisti triestini dissero che un italiano era stato ucciso da uno sloveno e così furono assaltati prima negozi sloveni e infine la Casa del Popolo a cui fu dato fuoco.
Fu il battesimo dello squadrismo fascista organizzato, come ebbe a dire Renzo De Felice.
Dopo Trieste gli assalti squadristi di replicarono in buona parte della Venezia Giulia e, come abbiamo ricordato nella puntata precedente, arrivarono fino a Bologna.
Fu qui che Mussolini ebbe l’intuizione di istituzionalizzare i Fasci e trasformarli in partito, contravvenendo a quella che forse era stata la caratteristica dominante del movimento dei fasci, ovvero l’avversione per la forma partito e per la contesa politica.
Con la trasformazione Mussolini intendeva garantirsi la possibilità di scardinare il sistema dall’interno e controllare meglio le escandescenze dei Fasci provinciali.
Fino ad allora i fasci erano organizzati su base provinciale sulla quale Mussolini aveva solo un parziale controllo e il potere dei RAS ne minava la centralità. Le tensioni si alzarono a tal punto che quando Mussolini annunciò il patto di pacificazione con le altre forze politiche, persino con i socialisti, la contestazione contro il fondatore si fece violenta.
Nell’agosto del 1921 Mussolini arrivò ad annunciare le dimissioni. Fu una mossa che riuscì a ricomporre la frattura perché Mussolini era l’unico leader riconosciuto avere una caratura nazionale.
Il 9 novembre 1921, durante il III congresso tenutosi al Teatro Augusteo di Roma, fu riconosciuta la guida di Mussolini, anche da parte di Grandi che era stato il suo più battagliero avversario, e trasformati i Fasci italiani da combattimento in Partito Nazionale Fascista. Simbolico fu anche il fatto che il congresso si tenne a Roma e non a Milano. In questo modo il partito assumeva una dimensione nazionale e puntava decisamente ad avere una presenza in parlamento.
I fasci non furono sciolti, ma inquadrati in un ordine fortemente gerarchico al servizio del Partito. Nel giro di pochi mesi, il piccolo gruppo di confusi irriducibili riunitosi a Milano era diventato un partito di massa con una propria milizia armata privata.
Ma l’apparente incoerenza di un movimento nato contro i partiti che si trasformava in partito troverà una sua conseguenza negli anni del potere fascista.
La miopia di Giolitti, che aveva accolto Mussolini nelle sue liste, portò 35 fascisti nel parlamento post elezioni del 1921.
Mussolini d'altronde era abile nel giocare con le ambiguità. Se la marcia su Roma aveva tutti i crismi del colpo di Stato, l’atteggiamento del leader fascista nei confronti della vecchia borghesia liberale e nei confronti della Corona inducevano ad accreditarlo come statista più che come rivoluzionario.
L’incarico ministeriale, ottenuto tanto con la minaccia quanto con la conciliazione, non soddisfò l’ala più dura dei Fasci che anzi mise in atto una sorta di fascismo militante contrario persino al Partito Fascista. In altre parole Mussolini aveva conquistato il potere politico ma doveva ancora conquistare, o forse riconquistare, il proprio partito.
Nel gennaio del 1923, con lo scopo di controllare e rifondarlo Mussolini creò il Gran Consiglio del Fascismo. Lo scopo fu subito chiaro: annullare la direzione del PNF democraticamente eletta al congresso per sostituirla con un direttorio nominato dallo stesso Consiglio.
La seconda mossa fu quella di creare la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, in modo da incorporare lo squadrismo in un corpo dello Stato e controllare le intemperanze dei ras.
Completata la trasformazione del Partito Fascista a Mussolini restava un’ultima insidia: la fragilità della coalizione parlamentare che lo sosteneva. Nella primavera del 1923 il Partito Popolare, che sosteneva il governo, tenne un congresso che vide prevalere le tesi antifasciste di Sturzo. Per correre ai ripari di una possibile uscita dei popolari dalla coalizione, Mussolini diede incarico a Giovanni Acerbo di elaborare una legge elettorale a collegio unico in base alla quale al partito che avesse raggiunto il 25% dei consensi sarebbero andati i 2/3 dei seggi.
Nel mese di aprile dell’anno successivo si andò alle urne. Il Partito Nazionale Fascista non si presentò, preferendo partecipare alle elezioni con il cosiddetto Listone Nazionale che si aggiudicò il 60% dei consensi. Scopo di Mussolini era dunque identificare il Partito con la Nazione.
L’ultimo colpo di coda dei partiti antifascisti fu la protesta dell’Aventino conseguente al sequestro e all’omicidio di Giacomo Matteotti.
Il 3 gennaio 1925 Mussolini ruppe gli indugi in cui attribuendosi la responsabilità politica degli accadimenti avviò la definitiva svolta dittatoriale.
Il partito si faceva Stato e lo Stato si incarnava nel partito.
Lo Stato-Partito era un insieme inscindibile che passava attraverso la fascistizzazione delle istituzioni e il partito cessava di essere mediatore fra Potere e cittadini diventando l’unico ed autentico interprete dei bisogni di questi ultimi.
La prima delle due leggi fascistissime cancellava ogni contrappeso e il potere di sfiducia del capo del governo veniva sottratto alle Camere per essere consegnato nelle prerogative del re. Al parlamento venne sottratto anche il potere di determinare l’ordine dei lavori che non poteva essere effettuato senza l’assenso del capo del governo.
La seconda legge fascistissima sottraeva al parlamento anche l’attività legislativa.
Con l’articolo 215 del Regio Decreto 1848 del 6 novembre 1926, con il quale i prefetti erano autorizzati a sciogliere qualsiasi formazione politica contraria all’ordine nazionale, la sovrapposizione fra fascismo e Stato era completa: era nazionale tutto ciò che era fascista e antinazionale tutto ciò che non lo era.
La fascistizzazione dello Stato era completa, andavano fascistizzati gli italiani.
Inutile dilungarsi sulle corporazioni, sull’opera nazionale del lavoro, sull’opera nazionale balilla, sulla Gioventù Italiana del Littorio; attività che con gli occhi di oggi appaiono aberranti e persino buffe.
Quando la folle entrata in guerra al fianco della Germania nazista si manifestò in tutta la sua brutale follia, la fascistizzazione della società mostrò tutte le sue debolezze intrinseche. Gli italiani, che il fascismo l’avevano talvolta esaltato talvolta accettato per sopravvivere, si rivelarono molto meno fascisti di quanto apparisse e gli si rivoltarono contro.
Notte del 25 luglio 1943.
L’accentramento delle decisioni nelle mani di Mussolini e l’identificazione stessa dello stato-partito con il suo duce, quando le sorti della guerra iniziarono ad essere evidenti, portarono il Re a prendere l’ultima decisione che gli era consentita dalla legge: revocare l’incarico al duce. Ma prima di farlo Vittorio Emanuele volle assicurarsi che i più influenti gerarchi fascisti fossero d’accordo. Fu Grandi a chiedere una riunione del Gran Consiglio che non si teneva più da 4 anni.
Non mancarono spaccature fra chi riteneva che l’identificazione del partito con lo stato si era rivelata un fallimento e chi al contrario riteneva che la situazione dipendesse dalla incompleta fascistizzazione.
La sfiducia a Mussolini fu votata da 19 componenti su 28, fra cui Grandi, Bottai e Ciano.
Alle 17 del 26 luglio Mussolini fu ricevuto dal re e all’uscita di villa Savoia fu tratto in arresto, ufficialmente per sottrarlo all’ira della folla.
Finiva così la parabola del movimento che volle farsi prima partito e poi stato e che ha dato il nome a quasi tutte le forme di autoritarismo e totalitarismo nel mondo.