Nella terza puntata avevamo visto la scissione dei socialisti e la nascita del partito comunista al congresso di Livorno del 1921.
Protagonista della lotta per la resistenza antifascista e protagonista altresì della costituente, il Partito Comunista italiano sarà uno degli attori principali di quella che gli storici politici chiamano la Repubblica dei partiti.
Gli anni della clandestinità non avevano intaccato l’idea di un partito di massa o, per meglio dire, di un partito delle masse guidate da una solida struttura gerarchica, da un’organizzazione rigida con un’ala politica, fedelmente agganciata al mito rivoluzionario, e un’ala movimentista, talvolta militare, pronta, se si fosse…
Nella terza puntata avevamo visto la scissione dei socialisti e la nascita del partito comunista al congresso di Livorno del 1921.
Protagonista della lotta per la resistenza antifascista e protagonista altresì della costituente, il Partito Comunista italiano sarà uno degli attori principali di quella che gli storici politici chiamano la Repubblica dei partiti.
Gli anni della clandestinità non avevano intaccato l’idea di un partito di massa o, per meglio dire, di un partito delle masse guidate da una solida struttura gerarchica, da un’organizzazione rigida con un’ala politica, fedelmente agganciata al mito rivoluzionario, e un’ala movimentista, talvolta militare, pronta, se si fosse presentata l’occasione, a combattere per quell’obiettivo.
L’abilità, e l’astuzia, di dirigenti come Togliatti e di ideologi come Gramsci, fu quella di rompere i confini dell’operaismo settario e di affascinare altre classi sociali, cosi il Partito Comunista Italiano diventò più che un partito di una classe, il partito di un popolo aprendo anche alla borghesia.
La già citata svolta di Salerno rimandò la rivoluzione preferendole l’unità del Paese e la costruzione, o il tentativo di costruzione, di un fronte democratico popolare che avrebbe dovuto portare il socialismo al potere.
Il momento più duro dello scontro fra democrazia liberale e democrazia socialista fu durante la campagna elettorale del 1948. A quelle elezioni il Fronte popolare, voluto forse più da Nenni che da Togliatti, si illudeva di replicare, e forse aumentare, il 40% di consensi raccolto dai due partiti all’assemblea costituente. Ad alimentare questa speranza c’era il malcontento di un popolo uscito frustrato dagli anni di guerra e lo stato di profonda miseria che il Paese doveva affrontare.
Le elezioni del 48 furono una sconfitta soprattutto per il Partito socialista, che da quel momento in poi diventò ancillare alla sinistra in uno scontro bipolare che vedeva il protagonismo di Democrazia Cristiana e Partito Comunista.
Il Partito di Togliatti, pur sconfitto, ripartiva invece da una solida base elettorale e di attivisti, che non metteva in discussione la struttura gerarchica interna.
Il 14 luglio del 1948 Antonio Pallante, un giovane studente di simpatie nazionaliste e che aveva militato nel Blocco Democratico Liberal Qualunquista, un minuscola formazione di fuoriusciti dal Partito dell’Uomo Qualunque, attese che Togliatti uscisse da Montecitorio e gli sparò 4 colpi di pistola ferendolo gravemente. La CGIL proclamò lo sciopero generale e si ebbero disordini anche gravi in tutt’Italia. La giovane democrazia italiana, appena uscita dalle prime elezioni democratiche, sembrava già a rischio.
Ma se la risposta del governo e del ministro degli interni Scelba fu si di contenimento dei disordini, stando tuttavia attento affinché tale contenimento non diventasse repressione, furono le parole di Togliatti dall’ospedale a indurre alla smobilitazione delle proteste.
Il tempo per la rivoluzione non era ancora arrivato e, d’accordo con Mosca, Togliatti riteneva ancora che fosse preferibile alla rivoluzione la via democratica al socialismo.
Un momento delicato per la tenuta del partito ci fu alla morte di Stalin. Togliatti era stato autorevole esponente del Cominform e il dittatore georgiano era sempre stato dipinto come la guida illuminata delle masse internazionali. Il rapporto Kruscev aveva svelato omicidi, crudeltà, soppressione violenta degli oppositori, anche quelli immaginari, che erano difficili da giustificare.
L’intervento armato dell’Unione Sovietica in Polonia e soprattutto in Ungheria del 1956 disvela la difficoltà per il Partito Comunista di Togliatti di mantenere vicinanza ad un regime che prima aveva denunciato i crimini del suo condottiero e poi ha usato gli stessi mezzi contro la popolazione ungherese.
I fatti del 1956 saranno anche la causa della irreversibile definitiva divisione fra socialisti e comunisti.
A riportare compattezza nel PCI fu un altro evento internazionale. L’operazione della coalizione anglo-francese contro la nazionalizzazione del canale di Suez fornì a Togliatti l’occasione di denunciare la volontà coloniale occidentale (sviando così l’attenzione dall’intervento sovietico in Ungheria) e, pur ribadendo la fedeltà all’URSS, di lanciare l’idea del policentrismo in contrapposizione al centralismo democratico. Nel congresso del dicembre del 1956 operò un profondo rinnovamento del gruppo dirigente allontanando esponenti, come Secchia, più vicini alla rivoluzione armata.
Nel frattempo l’apertura della DC ai socialisti, prima attraverso l’astensione di questi ultimi e poi attraverso la nascita del periodo di governi di centrosinistra, lasciava campo aperto al PCI sul fronte massimalista.
Quegli anni furono per il PCI gli anni del doppio binario. Togliatti non poteva nelle istituzioni opporsi alle politiche di nazionalizzazione delle imprese elettriche perché la sua base non l’avrebbe capita, e dunque ebbe in Parlamento un atteggiamento se non collaborativo col governo quantomeno morbido; al contempo non lasciò scoperta la piazza occupandola con slogan rivoluzionari e inviti all’agitazione. Agitazione che mise in difficoltà la CGIL impreparata a gestire le tensioni che stavano per arrivare alla fine del decennio nel periodo che viene ricordato come il 68.
L’idea di una via Italiana al socialismo non era però rappresentata solo da Togliatti. C’era all’interno del gruppo dirigente del PCI chi, come Amendola, soffriva l’isolamento comunista e vedeva di buon grado un riavvicinamento ai socialisti. Fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1964, Togliatti fu abile a contenere sia le spinte verso la riunificazione a sinistra, sia quelle verso una proposta di tipo rivoluzionario.
A Togliatti successe Luigi Longo, che come lui aveva vissuto in clandestinità ed era esponente degli anni dello stalinismo.
Intanto però le divisioni alla sinistra estrema assumevano altri contorni. Partito dalle università e fondato più su uno scontro generazionale che su quello politico in senso stretto, il movimento studentesco si fece portatore di idee nuove, libertarie, antiautoritarie, trasgressive; nulla in comune con la rigida ortodossia di un partito che intendeva si parlare alle masse ma che aveva estrazione intellettuale.
Il movimento studentesco generò una galassia fluida di iniziative non coordinate che chiedevano una velleitaria rivoluzione culturale e che trovavano i loro miti nel libretto rosso di Mao, in Ho Chi Minh, in Fidel Castro e Che Guevara. I nomi dei movimenti della sinistra extraparlamentare riflettevano anche una distanza culturale dal partito comunista degli anni 60 ormai incanalato nel sistema di potere della democrazia parlamentare: Potere Operaio, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Servire il Popolo, Partito marxista-leninista italiano.
In altri termini l’ancoraggio alla ideologia maosta-leninista di questi movimenti era una precisa accusa al PCI di essersi imborghesito.
Nel 1969 il partito reagirà a queste critiche tutto sommato interne alla sinistra, espellendo i dissidenti de Il Manifesto, un gruppo di intellettuali riuniti intorno all’omonima rivista. La frattura con quelli del Manifesto, Lucio Magri, Luciana Castellina, Rossana Rossanda, rievocava l’antica dicotomia fra troskisti e leninisti dei primi anni dell’URSS; una dicotomia fra un comunismo del popolo e un comunismo dei burocrati.
Alle tensioni, interne ed esterne, a sinistra, si aggiungevano le tensioni al centro. L’ala migliorista, rappresentata da Amendola e Napolitano, iniziava a guardare con favore all’integrazione europea e i carri armati sovietici nelle vie di Praga durante la primavera cecoslovacca, svelavano ancora una volta la natura intrinsecamente oppressiva del regime di Mosca.
Iniziò ad emergere un gruppo di dirigenti meno ancorato alla lotta partigiana e più incline a raccogliere gli stimoli arrivati dal memoriale di Jalta con cui Togliatti, poco prima di morire, prendeva una distanza più netta dall’URSS e indicava nella via democratica l’unica strada per il socialismo, non più rivoluzionario ma riformista. Questa nuova classe dirigente si identificò con la figura di Enrico Berlinguer.
Fra la dottrina, apparentemente non negoziabile, del nessun nemico a sinistra, e l’evoluzione verso un socialismo democratico, le circostanze internazionali, le tensioni interne al Paese sfociate poi nella lotta armata e la strategia dell’attenzione della Democrazia Cristiana, stavano portando il nuovo PCI di Berlinguer decisamente sulla seconda strada.