Per raccontare il fenomeno Lega dobbiamo fare un passo indietro nel tempo e tornare alla metà degli anni 70.
Umberto Bossi è uno svogliato studente di medicina dell’università di Pavia. Per mantenersi aveva fatto tanti lavoretti, l’operaio, il tecnico elettronico, aveva persino tentato la carriera come cantante con il nome d’arte di Donato. Nel 1975 accadono due fatti importanti: Bossi si iscrive al partito comunista, sezione di Verghera in provincia di Varese, e sposa Gigliola Guindali, commessa. Racconterà poi la ex moglie: “Umberto mi ha sempre riempita di inganni; è un fannullone caratterialmente incapace di avere un lavoro”.
La mattina esce dicendo alla moglie di andare a lavorare in ospedale, ma lui non è laureato, non concluderà mai gli studi. Preferisce passare il tempo armeggiando con cavi, radio e transistor e quando ne ha l’occasione parlare di politica con gli amici di paese.
Nel 1979 incontra l’autonomista valdostano Bruno Salvadori che gli parla dell’autodeterminazione dei popoli, della secessione, degli stati centralisti oppressori. Per Bossi è una folgorazione. Nel libro I demoni di Salvini Claudio Gatti racconta un episodio che la signora Gigliola, poi diventata ex moglie, raccontò al settimanale Oggi: Un giorno andai in banca e scoprii che il conto corrente era stato svuotato, non c’era più niente; aveva preso tutto l’Umberto per investirlo nella politica.
Bossi non è né uno studioso del pensiero politico né un elaboratore di politiche autonomiste, ma ha la sensibilità giusta per capire e intercettare il malcontento che si sente nelle chiacchierate al bar, nelle piazze e nella bocciofila. Nascono in quel periodo slogan come Questione settetrionale, Roma Ladrona e federalismo lombardo (l’idea di Padania non è ancora stata inventata).
Sotto il profilo dottrinario l’ideologia elaborata da Salvadori e avidamente interiorizzata da Bossi è un mischione di anarco-libertarismo e antifiscalismo contaminato da tradizioni valligiane, dalla difesa del dialetto come misura dell’identitarismo provinciale e anche comunale e riscoperta dell’unicità lombarda.
Nel 1984 insieme a Giuseppe Leoni Bossi fonda la Lega autonomista lombarda. Se l’impianto ideologico è confuso e si alimenta di parole solo apparentemente coerenti fra di loro (federalismo, autonomismo, secessionismo) una cosa è certa: Bossi e Leoni non si sentono affatto di destra, anzi hanno, anche per ragioni personali e familiari, in odio tutto ciò che richiama al fascismo. Nelle uscite pubbliche di quegli anni e nelle interviste da senatore della Repubblica Bossi dichiarerà spesso il suo profondo e viscerale antifascismo e quando nel 1994 parteciperà al primo governo Berlusconi sarà riluttante proprio per la presenza nella coalizione di Alleanza Nazionale, il partito di Fini che ha raccolto l’eredità del Movimento sociale.
Nel frattempo in Veneto era nata la Liga Veneta che si era presentata alle elezioni del 1983. Le posizioni della Liga erano persino più estreme di quelle della Lega Lombarda, unendo all’antifiscalismo per un benessere conquistato dalle regioni del Nord Est e che si vedeva messo a rischio dalle politiche romane, confusi richiami nostalgici alla grandezza perduta della Repubblica di Venezia.
Sull’esempio della Liga Veneta e della Lega Lombarda nascono movimenti autonomisti in tutto il nord. Ai già citati autonomisti valdostani si aggiungono l’Union Piemonteisa, il Piemont Autonomista, circoli leghisti in Friuli, in Liguria, persino in Emilia Romagna.
I Partiti tradizionali non si rendono conto che queste spinte confuse, raffazzonate, rozze e poco strutturate sono tuttavia espressione di un malcontento verso la partitocrazia e l’ingerenza della politica nella vita dei cittadini che ha basi solide ed esprime un problema serio per il Paese.
Ma le Leghe non intercettano solo le preoccupazioni dei valligiani; iniziano ad interessare anche il ceto medio e produttivo, la piccola borghesia delle fabbrichette. Giovanni De Luna descrisse il fenomeno leghista in un libro dal titolo rappresentativo: Figli di un benessere minore.
Alle elezioni del 1987 le Leghe, riunite intorno alla figura di Bossi e Leoni presero l’1,8% riuscendo ad eleggere i due rispettivamente al Senato e alla Camera. Da quel momento il soprannome di Bossi passerà dall’Umberto a il Senatur.
Le elezioni successive, europee e amministrative, confermarono che le porte del successo erano ormai aperte e percentuali intorno al 10% e oltre in Lombardia e Veneto facevano da traino al risultato complessivo nazionale.
A quella Lega mancavano due cose:
- Una unità fra le varie iniziative autonomiste del Nord in modo che unendo le forze si potesse diventare se non partito nazionale, almeno partito dal forte impatto macroregionale
- Un impianto ideologico solido che andasse oltre le invettive e le coreografiche cerimonie inneggianti ad una quasi interamente inventata tradizione celtica.
Bossi riuscì ad unire Liga Veneta e Lega Autonomista Lombarda sotto il nome di Lega Nord; poi incontrò Gianfranco Miglio, docente all’Università Cattolica del sacro Cuore e convinto federalista.
Miglio, che non si iscrisse mai alla Lega, neanche quando fu eletto alla Camera come indipendente, elaborò una teoria federalista di ispirazione cantonale in cui l’Italia veniva divisa in 3 macroregioni Padania al Nord, Etruria al Centro, Mediterranea al Sud e 5 regioni a statuto speciale.
La Lega aveva ora una piattaforma programmatica degna di tal nome; ma Bossi, l’abbiamo visto, non è mai stato affidabile. Una volta arrivato a Roma ne iniziava ad apprezzare i privilegi e le comodità, compreso un coinvolgimento nella tangente ENIMONT per la quale fu condannato in via definitiva a 8 mesi di reclusione. Così Miglio e il suo progetto federalista furono formalmente adottati come ideologia leghista ma presto liquidati quando il politologo iniziò a dichiararsi contrario alle funamboliche giravolte del Senatur. Bossi nel 1996 etichetterà Miglio con queste parole: Miglio è una scorreggia nello spazio.
Nel 1994 scese in campo Silvio Berlusconi, con lo scopo dichiarato di evitare il pericolo comunista dato che l’unico partito sopravvissuto alla valanga di inchieste per tangenti era appunto il PCI; pur disponendo di una macchina mediatica senza precedenti, giornali, televisioni, personaggi dello spettacolo, il successo elettorale del 1994 era affatto scontato, così Berlusconi si impegnò nella costruzione di un’alleanza che comprendesse le due forze emergenti del panorama politico non identificabili con i partiti della prima repubblica.
Ma, come abbiamo visto, di una sola cosa Bossi era sicuro: mai con i fascisti. Berlusconi risolse la questione alleanze creandone due: il Polo delle Libertà al nord, con la Lega, e il Polo del Buon Governo al sud con Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini.
Fra Berlusconi e Bossi non c’era fiducia. Anche Berlusconi era uomo identificabile con il Nord produttivo, in più aveva mezzi finanziari mai visti prima in politica e solidissimi rapporti con la partitocrazia spazzata via da Tangentopoli e che Bossi aveva, a parole, combattuto.
Quando il governo Berlusconi presentò la riforma delle pensioni all’interno della finanziaria alla fine del 1994 Bossi e Maroni, ministro degli interni e vicepresidente del Consiglio, scesero in piazza a protestare insieme ad opposizioni e sindacati. Bossi, sempre creativo coi nomignoli, iniziò a chiamare Belusconi Berluscaz. Il presidente del consiglio parlò di ribaltone e giurò che mai più si sarebbe seduto ad un tavolo con Bossi. Le cose, come sappiamo, andranno poi in altro modo.
Ma c’era probabilmente anche un’altra ragione nel voltafaccia di Bossi. Berlusconi parlava allo stesso “pubblico”, la piccola imprenditoria antitasse e preoccupata del venir meno di una classe dirigente che in fondo ne aveva sempre coperto le debolezze e l’aveva protetta dalla concorrenza. Lo faceva con una potenza di fuoco che Bossi non aveva contrapponendo il populismo telecratico a quello popolano.
Le elezioni europee tenutesi due mesi dopo le politiche, dove la Lega aveva perso due punti percentuali proprio a favore di Forza Italia ne erano la prova. Meglio dunque passare all’opposizione e cavalcare l’onda della protesta contro la partitocrazia al grido di Padania Libera.
Alle elezioni del 1996 la Lega si presentò sola contro tutti: contro il Polo della Libertà, affermando “chi vota il Polo vota mafia” e contro la coalizione di sinistra, affermando “chi vota Ulivo vota Agnelli”.
Alla retorica anticapitalistica si affiancava quella contro la globalizzazione e contro gli immigrati, destinata a sostituire quella contro i meridionali.
La scelta dell’isolamento portò i suoi frutti perché a quelle elezioni la Lega risalì fino al 10,8%. Ma l’isolamento aveva poneva anche dei problemi. Posto che i proclami secessionisti non sfondavano e posto che altre bizzarre proposte, come quella dei ministeri del nord, erano poco più, o poco meno, che manifestazioni di folclore al pari dei riti dell’ampolla e delle milizie in camicia verde, Bossi verso la fine del decennio non seppe dire di no a Berlusconi che gli propose una riedizione del Polo delle Libertà. Si dice anche, esistono prove al riguardo, che il Cavaliere offrì anche una fidejussione personale alla Lega in gravi condizioni economiche.
Alle elezioni del 2001 la Lega di Bossi, abbandonata da alcuni dirigenti e da una buona parte degli autonomisti veneti, precipitò ad un modesto 5,9%; poco per incidere, ma sufficiente per costringere Berlusconi a non farne a meno. I toni drammatici della secessione vennero abbandonati per una più tiepida e poco incisiva devolution.
Gli anni che seguirono videro il paradosso di un Bossi, improvvisamente realista, come alleato più fedele del Cavaliere, e una Lega, spogliata di una spinta populista che si era esaurita, in caduta di consensi.
L’11 marzo 2004 Umberto Bossi fu colpito da un ictus cerebrale che lo terrà lontano dai riflettori per un anno.
Nel 2012 il tesoriere della Lega e amico personale di Bossi Francesco Belsito vennee indagato per aver consentito che i soldi del finanziamento pubblico alla Lega venissero usati dalla famiglia del Segretario. Bossi e Belsito si dimisero e a guidare il partito furono chiamati Roberto Maroni, Roberto Calderoli e Manuela Dal Lago. Al successivo congresso fu eletto segretario Maroni che però durò poco. Solo l’anno dopo si tenne un congresso straordinario dove contro Bossi si candidò l’emergente Matteo Salvini che ottenne l’82% dei voti.
Terminava così la parabola della Lega autonomista, secessionista e federalista. Emergeva una nuova Lega: sempre contro qualcosa, ma stavolta populista e nazionalista.