Some Like It Hot è il disco in cui i Bar Italia scelgono di esporsi, di spingersi un po’ oltre la loro dimensione di culto sotterraneo per trasformare il proprio linguaggio in qualcosa di più ampio e definito. Dopo gli esperimenti più ombrosi dei lavori precedenti, il trio londinese affina il proprio suono senza rinunciare alla sua indole nervosa, costruendo un album che suona più diretto, ma anche più consapevole. È come se la band avesse deciso di spogliare la propria estetica lo-fi per mostrare le ossa del proprio songwriting. Dodici brani compatti, asciutti, che restituiscono il fascino opaco del loro universo con una lucidità nuova.
La scrittura dei Bar Italia rimane quella di sempre, frammentaria, allusiva, costruita per accumulo, qui accompagnata da una maggiore chiarezza di visione. I brani oscillano tra un post-punk nervoso e un indie-rock sfocato che guarda tanto agli Interpol quanto ai Velvet Underground, con echi lontani di PJ Harvey nei momenti più teatrali e una certa disillusione alla The Strokes nei passaggi più lineari. Eppure, al di là dei riferimenti, ciò che distingue il gruppo è la loro capacità di piegare la forma pop a una sensibilità obliqua. Le canzoni sembrano sempre sul punto di crollare o di aprirsi verso qualcosa di inatteso.
L’alternanza delle voci resta uno dei tratti più riconoscibili: quella femminile, più diretta e tagliente, e quella maschile, spesso distante, che si intrecciano fino a creare un continuo gioco di sguardi e distanze. Ne nasce una dinamica emotiva ambigua, un dialogo in cui si parla d’amore, di alienazione, di quotidianità distorta, senza mai arrivare a una risposta definitiva. Brani come Fundraiser e Rooster incarnano perfettamente questa tensione con bassi pulsanti, chitarre essenziali, linee vocali che si sfiorano senza mai fondersi del tutto. In Bad Reputation la malinconia prende il sopravvento, aprendo uno spazio più intimo, mentre Cowbella mostra il lato più ironico e nervoso del gruppo, con un groove che rimane sospeso tra sensualità e distacco.
La produzione, più nitida rispetto ai dischi precedenti, mette in risalto i dettagli e la solidità della scrittura. Non c’è più quella patina sfocata, noise, che caratterizzava i lavori passati, ma una precisione che, pur rischiando di togliere un po’ di mistero, restituisce pienamente l’impatto emotivo della band. È un suono urbano, tagliente ma controllato, che lascia spazio ai silenzi e non teme la semplicità.
Some Like It Hot è un album che segna forse una transizione, da progetto enigmatico e sotterraneo a gruppo capace di parlare a un pubblico più ampio senza perdere la propria identità. Non è un disco perfetto, ma lo è nella misura in cui riesce a mantenere viva la tensione tra immediatezza e opacità, tra desiderio di chiarezza e piacere dell’ambiguità. È una prova di maturità che conferma i Bar Italia come una delle band più originali dell’indie contemporaneo.
Vendrán Suaves Lluvias è il nuovo grande capitolo della cantautrice messicana Silvana Estrada. Un episodio che nasce dal dolore, dalla perdita e dal desiderio di trasformazione. Non è solo un album sul lutto o sul cuore infranto, ma un viaggio di rinascita che si muove con passo deciso tra fragilità e forza.
Fin dall’apertura con Cada Día Te Extraño Menos si percepisce la doppia natura dell’opera. Un paesaggio intimo, voce e cuatro venezuelano, radici nelle montagne di Veracruz; al tempo stesso esteso, aperto a orchestrazioni leggere, fiati e archi che si affacciano come nuvole all’orizzonte. In quei primi versi si dà corpo a quella che è forse la domanda centrale dell’album: cosa accade quando la ferita diventa forma, quando la perdita diventa canto?
Le canzoni si sviluppano nel fluire tra confessione e visione. In Dime la malinconia si piega al rigore della scelta, in Lila Alelí l’innocenza sembra riemergere in un ritmo più leggero, quasi danzante, e in Good Luck, Good Night la rabbia trattenuta esplode in un bolero carico di teatralità.
Il suono dell’album è più ampio rispetto a quello del precedente lavoro. Pur mantenendo la semplicità del canto e del cuatro, vengono introdotti arrangiamenti che donano spazio all’orchestrazione, al respiro, ma sempre con delicatezza. Nessun gesto appare forzato, nessuna produzione sovraccarica. L’eleganza è nel tratto leggero, nella capacità di sospendere il dolore senza farlo evaporare. Si percepisce che è un album scritto nel buio e nella luce, in cui le due condizioni convivono senza cancellarsi a vicenda.
In termini stilistici, Vendrán Suaves Lluvias ricorda le ballate ranchera-folk di artiste come Chavela Vargas o l’intimità sonora di Natalia Lafourcade, ma lo rielabora secondo la sensibilità contemporanea di Estrada. C’è anche qualcosa di levità nella sospensione di cantautrici indie-folk anglosassoni, con radici e paesaggio latino; un incontro che dona all’album freschezza.
Se si crede nel potere della canzone come testimonianza, a chi non teme l’introspezione e apprezza il contrasto tra vulnerabilità e forza. Impacchettato per voi.
Perseverance Flow
di Natural Information Society
Uscita: 24/10/2025 |
Genere: Experimental / Jazz
Perseverance Flow è la conferma che i Natural Information Society di Joshua Abrams non sono soltanto un ensemble d’avanguardia, ma una vera e propria comunità sonora capace di trasformare la ripetizione in viaggio e la semplicità in rivelazione. È un disco che lavora sulla pazienza e sulla percezione. Torniamo all’unica lunga composizione che si espande e si contrae come un organismo vivente, costruita su variazioni sottili, su movimenti quasi impercettibili che finiscono per diventare tutto.
La formazione è quella ormai consolidata. Il guembri di Abrams come spina dorsale, il clarinetto basso di Jason Stein, l’harmonium di Lisa Alvarado e la batteria di Mikel Patrick Avery. Da questi pochi elementi nasce un suono circolare, rituale, che unisce la trance della musica gnawa alle strutture iterative di Steve Reich, la spiritualità libera di Coltrane alla disciplina collettiva dell’improvvisazione di Chicago. Non c’è mai un vero inizio né una fine. Il pezzo scorre, si rigenera, respira. È musica che costruisce il proprio senso nella durata e nella persistenza.
Nel corso del brano, la pulsazione si altera quasi impercettibilmente. Si parte da un battito profondo e ipnotico; poi, lentamente, emergono variazioni ritmiche, sfumature armoniche, un respiro che si fa più terreno, più corporeo. Verso la metà del pezzo la batteria si fa più densa, quasi pulsante, portando con sé un’energia che sfiora la trance elettronica. È in questi momenti che Perseverance Flow mostra tutta la sua complessità. Musica spirituale, perché no, ma anche fisica, muscolare.
La produzione è asciutta ma estremamente curata. Nulla suona “lucido” in senso moderno, ma ogni dettaglio vibra con una profondità che sembra provenire dalla terra, il clarinetto
Chi vi entra con pazienza scoprirà una musica che non cambia mai, eppure cambia continuamente. È un lavoro che porta avanti la tradizione del minimalismo spirituale ma con un’intensità profondamente umana, fatta di respiro e vibrazione più che di concetto.
Joshua Abrams e i suoi compagni hanno costruito un disco che sembra non appartenere a nessun genere, e proprio per questo resta unico. Perseverance Flow è un atto di fede nella durata, nella concentrazione, nella perseveranza del suono come forma di conoscenza.
Rhythm Immortal è la conferma che Carrier (alias del veterano della drum’n’bass e della techno Guy Brewer) non si accontenta del già sentito. Un radicale punto di non ritorno in cui ritmi, suoni e concetti si ricombinano fino a generare una forma nuova, intima e imponente. Brewer non replica i codici della pista né i paradigmi della produzione elettronica standard, ma li riplasma come se suonasse strumenti fossili riscoperti da un archeologo del futuro.
Dal primo brano si percepisce subito la volontà di costruire non semplici tracce, bensì ambienti di colloquio. Un colpo di snare che squarcia un silenzio pesante, subito seguito da un groove che sembra oscillare tra dimensioni temporali. I richiami sono evidenti: la meticolosità ritmica dei tempi d’oro della drum’n’bass, la spazialità dub di progetti come Rhythm & Sound, la tensione asettica della techno. Ma tutto è filtrato, deformato, trasformato. In Outer Shell il ritmo si muove come se fosse sospeso in una melma sonora, le percussioni sembrano colpi d’oggetto su metallo umido e il tempo si deforma. Ti accorgi di trovarti dentro un dispositivo che piega l’orecchio più che il corpo. Al contrario, Wave After Wave afferma una geometria più riconoscibile, ma lo fa con un 5/4 e un groove che sembrano rallentare pur accelerando, lasciando una traccia di disagio.
Le collaborazioni (come con Voice Actor in That Veil of Yours e con Memotone in Offshore) aprono squarci vocali che non distraggono ma amplificano il paesaggio sonoro.
Dal punto di vista stilistico, Rhythm Immortal può essere messo accanto a icone quali Photek (nei suoi momenti più cerebrali di drum’n’bass) o a chi ha chiuso (come Shifted, lo stesso Brewer in un’altra vita). Ma più ancora che un omaggio, è una riscrittura. Brewer si muove su un terreno che potremmo definire “tecnorituale”, dove l’ossatura è elettronica ma il corpo appare fisico, quasi artigianale. Le tracce non sono pensate solo per la pista, ma per l’ascolto, per il corpo che siede, chiude gli occhi e lascia che ogni battito lo attraversi.
Reinventarsi non è un trucco, ma un viaggio.
Unterhaltungen mit Larven und Überresten
di Läuten der Seele
Uscita: 24/10/2025 |
Genere: Experimental
Unterhaltungen mit Larven und Überresten è un disco che sembra provenire da un’altra dimensione del tempo, un archivio in cui il passato e l’oblio si confondono fino a generare un nuovo linguaggio. Con questo lavoro, Christian Schoppik continua a costruire, attraverso il suo progetto Läuten der Seele, un universo sonoro che vive di contrasti, di memoria e decomposizione, liturgia e spettralità.
Il lavoro si apre con un rumore iniziale, statica, voci campionate, un invito a varcare una soglia e, da quel momento, tutto prende corpo: campionamenti decostruiti, loop inquietanti, organi che scricchiolano, voci in tedesco che fluttuano tra il parlato e il canto. L’atmosfera è quella di un archivio dimenticato, di nastri ammuffiti rinvenuti in una cantina e rimessi in circolo, ma con la consapevolezza di chi li ripresenta come reliquie personali. Un po’ come se l’ambient horror di William Basinski incrociasse la deformazione teatrale di Nový Svět, elemento non casuale, visto che la collaborazione con Jota Solo (voce di Nový Svět) segna uno snodo importante in questo lavoro.
L’atmosfera rimanda a una certa tradizione della musica d’avanguardia europea e si intravedono ombre di Coil o dei Popol Vuh più meditativi, ma anche la decadenza evocativa di Nový Svět, con cui Schoppik condivide la sensibilità per la messa in scena del tempo. In alcuni momenti si ergono echi e richiami all’hauntology britannica (pensate a nomi come The Focus Group o Moon Wiring Club), mescolati però con una sensibilità tedesca verso la memoria culturale, i nidi del passato e le sigle oscure del «Heimat» filmico e musicale. In alcuni brani, come Letzte Lichter, si mostra la capacità del progetto di fondere struttura e dissoluzione: una melodia si accende, quasi a suggerire una forma di canzone, ma subito viene inghiottita dal rumore, dalla ripetizione, dal respiro di un organo che non vuole smettere. È questo continuo movimento tra forma e perdita a rendere Unterhaltungen mit Larven und Überresten un ascolto ipnotico. Un messaggio e un senso di colpa.
La produzione è scarna e analogica, fatta di materia più che di lucidità digitale. Ogni suono conserva la sua grana, il suo difetto, la sua vita autonoma.
Unterhaltungen mit Larven und Überresten è un lavoro che chiede silenzio e attenzione. La sua forza sta nella capacità di evocare senza spiegare, di suggerire senza definire. È come osservare una fotografia che si sviluppa lentamente e scoprire che i volti ritratti ci stanno guardando.
Is This a Queue è l’esordio in forma piena di Alpha Maid, ed è un progetto che trasforma la frustrazione verso i sistemi rigidi, l’incertezza e l’ignoto in un linguaggio sonoro feroce e visionario. Sia chiaro, sono questi i progetti odierni che fino al midollo mi stimolano e ricordano il perché questo sia diventato, in qualche modo, linfa vitale.
L’album si presenta come un mosaico di spigoli sonori: chitarre grezze, drum-machine deformate, campionamenti ambientali che si insinuano nei vuoti tra un accordo e l’altro. Il risultato è una fusione di post-punk, noise rock ed elettronica sperimentale, con riferimenti che vanno da Slint a Black Dice, da Klein a Loop.
L’apertura con 6-9 coglie immediatamente la natura disorientante del lavoro. Un falso inizio che tronca la chitarra tipica di Alpha Maid, la sostituisce con droni e registrazioni ambientali, e sembra riplasmare l’esperienza del suono in tempo reale. I pezzi che seguono oscillano tra una struttura che assomiglia a “canzone” e momenti in cui la forma viene completamente scomposta: 2 Numbers si scaglia lenta, quasi lo-fi, poi si anima di stacchi ritmici e voci filtrate; il suono inconfondibile della Magaletti si alza sui pedali in Why We Have to Move, con un ritmo che sembra cercare direzione, per poi deragliare in una spirale di chitarre lisergiche e improvvisazione. Siamo dalle parti dei The Raincoats e dei Mouth.
Ciò che colpisce è l’assenza della “comfort zone”: non c’è la melodia facile, non c’è l’assalto metallico convenzionale, non c’è neppure la sperimentazione fine a sé stessa. Alpha Maid mantiene un’urgenza fisica, un’immediatezza che non rinuncia al rischio. Ogni traccia sembra costruita e al contempo smontata, come se l’artista stesse continuamente esplorando i limiti del “riff”, della “canzone”, del “drum groove”, fino a trovare uno spazio che non è stato ancora codificato.
Dal punto di vista stilistico si avverte un’inclinazione verso la “scultura sonora” del rock sperimentale puro. È facile trovare collegamenti con l’estetica di This Heat ma Alpha Maid li porta in un contesto attuale; uno in cui l’elettronica underground, il dub della diaspora londinese e l’eredità art-rock britannica si fondono senza attenuanti.
Onestamente? Credo ci rivedremo nello stilare la celeberrima classifica.
