Il reato di femminicidio tra populismo e simbolismo nel diritto penale

Diritto

di Aurelio Iacono,

Il governo Meloni ha recentemente approvato un disegno di legge per introdurre nel Codice Penale il reato di femminicidio. La proposta è stata accolta con una certa polarizzazione, come spesso accade in Italia: secondo alcuni è sacrosanto punire più gravemente un fenomeno sociale percepito come allarmante, secondo altri esiste l’omicidio senza alcuna distinzione in relazione alle qualità della vittima. Ma allora, qual è il valore della proposta? Quali sarebbero i contributi del nuovo reato?

0:00

Nonostante sicurezza e criminalità siano spesso usate in modo strumentale da forze politiche interessate a dipingere una Italia più insicura di quanto sia, i dati possono in realtà confortare: all’inizio degli anni ‘90 i numeri annuali degli omicidi volontari superavano abbondantemente quota 1000, mentre negli ultimi 30 anni l’Italia ha visto un drastico calo e si attesta ormai come uno dei Paesi più sicuri, sul piano non solo globale, ma anche europeo.

Anzitutto dobbiamo chiederci quale sia la funzione del diritto penale e dunque quando sia opportuno l’intervento punitivo da parte dello Stato: gli approdi più avanzati della dottrina ritengono che lo ius puniendi (diritto di punire) sia un’extrema ratio, da circoscrivere alle ipotesi in cui la condotta che si intende sanzionare leda o ponga in pericolo un interesse che sia davvero meritevole di tutela, i.e. i cosiddetti beni giuridici, possibilmente di rango costituzionale, nel senso che tale valore dovrebbe avere una qualche copertura nella Costituzione, si pensi, a titolo esemplificativo, alla vita (omicidio), alla proprietà (furto, truffa, rapina,...), alla libertà personale (sequestro di persona, stupro,...). 

La repressione penale non può perseguire la realizzazione di un ideale di giustizia ultraterreno o di natura etica, bensì obiettivi pratici e socialmente utili (1). Non a caso storicamente questi scopi sono stati fatti propri dagli Stati autoritari, dove il discrimen legalità-moralità è molto sfumato.

Anche perché trattasi questa di una considerazione pragmatica: ingolfare le scrivanie di pubblici ministeri e giudici con casi caratterizzati da una gravità effettiva medio-bassa nuoce al buon funzionamento della macchina giudiziaria. Sul punto tra l’altro si sviluppa una delle critiche al cd. proibizionismo in materia di sostanze stupefacenti: secondo un report stilato da diverse associazioni indipendenti, nel 2021 il 34.88% dei detenuti erano soggetti imputati o condannati in base al decreto n. 309 del 1990, il testo unico in materia di droghe, e i fascicoli nei tribunali penali per tali reati si attestavano a 231.659 (2)

L’eccessiva durata dei processi rimane poi un enorme problema in Italia, dove il procedimento penale, stando ai dati del 2022 (3), dura in media 355 giorni in 1°, 750 giorni in 2° e 132 giorni in Cassazione. 

Da ciò derivano due conseguenze: da una parte l’opportunità di evitare le derive tipiche di un cosiddetto Stato etico, dove l’autorità pubblica sanziona condotte non intrinsecamente offensive ma semplicemente incoerenti con l’etica dominante (si pensi alla situazione di parte del mondo islamico, dove il discrimen tra religione e legge statale non è sempre netto); dall’altra l’inopportunità di usare il diritto penale in modo “populista” e “simbolico”, prevedendo norme incriminatrici “spot”, con cui la politica intende dare un messaggio all’opinione pubblica, o meglio al proprio bacino elettorale, in relazione a temi percepiti come impellenti, spesso a seguito di una forte attenzione mediatica.

Si pensi all’iniziativa del governo Meloni sul reato sui rave party, giunta a seguito di una festa di musica techno non autorizzata, tenutasi vicino Modena nell’ottobre 2022 con il coinvolgimento di migliaia di persone e conclusasi pacificamente con lo sgombero grazie ad una trattativa tra forze dell’ordine e organizzatori (4). Nonostante i danni materiali patiti dal proprietario del terreno, l’intervento legislativo è stato inopportuno per una serie di criticità (5): una cornice edittale (=sanzione) da 3 a 6 anni di reclusione, obiettivamente sproporzionata, anche in relazione agli altri Paesi europei (6); una descrizione della condotta poco chiara e tassativa, che lascia spazio ad una elevata discrezionalità nello stabilire se il raduno sia pericoloso per l’ordine o incolumità pubblica, considerando anche che la libertà di riunione è espressamente tutelata dalla nostra Costituzione; in definitiva, l’assoluta inutilità dell’intervento legislativo, anche perchè di certo non mancavano disposizioni applicabili ai fenomeni che si intendeva colpire, tra cui un apposito reato di invasione di terreni o edifici pubblici o privati altrui (art. 633 C.p.).

Un altro esempio è stata la saga della legittima difesa domiciliare, che ha avuto come paladino il leader della Lega Salvini, sostenitore dell’idea secondo cui la reazione ad un’offesa altrui sia sempre legittima all’interno del domicilio del soggetto aggredito, con buona pace della proporzionalità, uno dei tre presupposti necessari per far sì che la condotta di chi si difende sia penalmente non rilevante. La riforma, giunta nel 2019, era del tutto inopportuna, per diverse ragioni:

  • i casi che si ponevano nella prassi giudiziaria erano pochissimi ( secondo i dati del Ministero della Giustizia, dal 2013 al 2016 i procedimenti penali giunti in giudizio per i quali rileva la legittima difesa sono stati 15);
  • non avrebbe garantito alcuna efficacia deterrente, come sostenuto dalla dottrina criminologica maggioritaria e dall’esperienza degli Stati Uniti, dove, pur vigendo la cosiddetta Castel doctrine - per cui a fini della legittimità della difesa bastano meri sospetti - e nonostante l’elevata diffusione di armi da fuoco tra i privati, nel 2013 sono stati denunciati 8 milioni di furti (in Italia circa 1 milione) e sono avvenuti 33.000 omicidi (in Italia poche centinaia);
  • non sussisteva alcuna incertezza giurisprudenziale in merito ai tre requisiti per beneficiare della legittima difesa; i.e. attualità del pericolo, inevitabilità della reazione e proporzionalità;
  • l’idea poi di creare uno “scudo penale” - in base al quale a fronte di fatti in cui un soggetto subisce un’intrusione nel proprio domicilio e si difende cagionando la morte del criminale - non può che essere rigettata. Per quanto anche il mero fatto di essere sotto indagine genera una serie di conseguenze, non solo materiali ma anche morali, a dir poco spiacevoli, non si può accettare che in uno Stato di diritto alla morte di un soggetto non segua una qualche forma di accertamento da parte dell’autorità giudiziaria.

A questo punto chiediamoci, qual è stata la reale ragione della riforma? Bieca propaganda, poiché la politica si fa traghettare, e in parte le alimenta essa stessa, dalle suggestioni emotive contingenti che provengono dall’opinione pubblica, spesso legate ad eventi specifici e totalmente scisse da analisi razionali, anche in termini di valutazioni costi-benefici (7).

Ora, sarebbe ingenuo pensare che il diritto penale, essendo generato dal legislatore nel corso di un’attività politica, e non tecnico-scientifica, non abbia anche una funzione “simbolica”; la degenerazione patologica avviene quando quest’ultima sovrasta e sostituisce, completamente o quasi, l’altro elemento essenziale, ossia la funzione cd. strumentale (=tutela di beni giuridici), come purtroppo avviene frequentemente (8).

Il populismo penale non è solo inutile, ma talvolta anche dannoso, potendo generare effetti negativi socio-economici di una certa rilevanza: si pensi alla criminalizzazione operata con il cd. decreto sicurezza delle attività commerciali legate alla cannabis light, nonostante l’irrisorio livello di THC della sostanza (il principio attivo della marijuana), a seguito della quale un intero settore, che coinvolgerebbe 3000 imprese e 15.000 lavoratori, dall’oggi al domani si è ritrovato buttato fuori dai confini di ciò che è legalmente permesso (9)

Queste considerazioni permettono di interrogarsi su un altro aspetto centrale, il ruolo dei mass media nel plasmare le ansie e le paure di molti cittadini, e, conseguentemente, le richieste che costoro volgeranno ai rappresentanti politici. 

Si verifica una specie di comunione di intenti tra la politica, che spesso fa propaganda, e il cosiddetto quarto potere, che, lungi dall’assumere il ruolo di “cane da guardia della democrazia” (10), è consapevole dell’attenzione, spesso morbosa, che la cronaca nera genera negli spettatori: stando ad uno studio indipendente (11), nel corso della campagna elettorale per le elezioni europee del 2019 tale tipologia di notizie ha occupato ben il 21% dello spazio complessivo dei telegiornali nazionali (dal 35% per il Tg4 al 14% per il Tg7), la politica estera ed europea uno sconsolante 9%.

La conclusione sulla capacità della cronaca nera di generare ascolti è corroborata dalla tendenza sempre maggiore a svolgere, specialmente nei cd. talk-show, veri e propri cosiddetti processi paralleli, in cui si dà l’impressione al pubblico di star assistendo alla ricerca della verità e al raggiungimento della giustizia, omettendo che l’accertamento della responsabilità penale segue le sue logiche e che quest’ultime non sono ostacoli e meri formalismi, bensì garanzie per l’intera collettività, posto che chiunque potrebbe trovarsi nel banco degli imputati, per una innumerevole serie di ragioni. In altri termini: “I media risvegliano il sogno della democrazia diretta, il sogno di un accesso alla verità liberata di ogni mediazione procedurale (...). La sentenza che si discosta dal verdetto mediatico viene guardata con diffidenza (... ) e quella che ne ribadisce sostanzialmente il contenuto viene percepita come la riprova che l’azione giudiziaria segue un percorso lento, farraginoso e antieconomico per raggiungere una verità a portata di mano(12).

Fonte: Osservatorio di Pavia, I TG e la campagna, 15 luglio 2019.

Simili derive populiste interessano anche la fazione politica del centrosinistra e pongono un tema aggiuntivo, in relazione ai cd. reati d’odio, spesso giustificati, dal punto di vista ideologico, ricorrendo al celebre paradosso della tolleranza di Karl Popper, che sembra però opportuno, anche al fine di garantire che il diritto penale rimanga saldamente ancorato ai fatti materiali, circoscrivere ad azioni offensive e pericolose, e non a mere espressioni verbali/corporali: per dirla in altri termini, un conto è sanzionare coloro che intendono ricostituire il partito fascista 2.0 o i membri di Forza Nuova che assaltano la sede della CGIL a Roma, colpiti, giustamente, da condanne nemmeno così leggere (13); diverso, mi pare, invocare lo ius puniendi a fronte di commenti razzisti, omofobi o discriminatori in genere. Insomma, oltre al più conosciuto brocardo latino nulla poena sine lege a tutela del principio di legalità, ne andrebbe valorizzato un altro, ossia cogitationis poenam nemo patitur, che esprime il cosiddetto principio di materialità: nessuno dovrebbe essere punito per le proprie intenzioni, per i propri pensieri.

Ecco, mi sembra che i tentativi di punire mere manifestazioni di odio rischino pericolosamente di contraddire tali premesse, mentre beneficeremo tutti se anche in Italia si affermasse una cultura della freedom of speech analoga a quella consacrata dal primo emendamento alla Costituzione USA (14), che, tra le altre cose, ponesse fine all’odiosa pratica delle cosiddette querele temerarie per diffamazione contro giornalisti, blogger etc.: secondo un dossier indipendente del 2016 (15), nel biennio 2014-2015 il 70% delle querele è stato archiviato dal GIP (16) e soltanto l’8% dei procedimenti complessivamente avviati (a partire dalla querela) è stato concluso con una sentenza di condanna; da ciò si evince che gran parte delle querele sono infondate, talune anche manifestamente tali, ma nonostante ciò rimangono uno strumento di intimidazione e ricatto, dato che la sola fase preliminare, che comunque dura in media 30 mesi, costa economicamente ed espone a diverse conseguenze reputazionali, anche a causa della poca capacità dell’opinione pubblica italiana di metabolizzare il concetto di presunzione d’innocenza.

Tornando al tema iniziale, il femminicidio, è opportuno sottolineare come nessuno voglia sottovalutare il tema della violenza di genere che, da una parte è pacifico veda spesso il maschio come autore, dall’altra, in termini di omicidi, non ha visto la netta flessione evidenziata dalla tabella all’inizio dell’articolo.

Ma, siamo sicuri che la soluzione per ridurre il numero di donne uccise da partner/ex partner consista nell’introduzione di una nuova fattispecie? Perché, così facendo, introducendo una circostanza aggravante rispetto all’ipotesi base di omicidio, la politica potrà certamente dichiarare urbi et orbi “di aver fatto qualcosa per le donne!”, ma nei fatti non cambierà alcunché. Il tema dei femminicidi, se si decide di affrontarlo come problema collettivo, postula interventi decisamente più strutturati, profondi, ma al contempo complessi, non solo da spiegare all’elettorato, che preferisce la pena come “ansiolitico sociale”, ma anche da attuare: si pensi a programmi di prevenzione soprattutto sociali e psicologico-psichiatrici che possano agire sulle cause profonde del “male”. In altri termini, come si può pensare che un’aggravante sanzionatoria abbia un tale effetto pedagogico e/o deterrente? Come si può pensare che il femminicida di turno si astenga dal commettere la condotta criminale e venga frenato, in veste di essere razionale puro, dal più severo trattamento sanzionatorio? 

A parte tali considerazioni, dal punto di vista del giurista, la fattispecie proposta presenta numerose criticità, tra le quali svetta l’assegnazione al giudice di un compito decisamente arduo, che sarebbe tale anche per lo stesso Sigmund Freud: il femminicidio sussisterebbe infatti ove l’assassino agisse mosso dall’odio per la vittima “in quanto donna” o “per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà, o, comunque, l’espressione della sua personalità”. La farraginosità e complessa attuabilità della fattispecie appare lampante (17). Oltretutto l’uso del diritto penale in chiave consumistica, quasi di marketing, è testimoniato dal giorno dell’approvazione del disegno di legge in seno al Consiglio dei Ministri, il 7 marzo, e dal contesto ambientale, caratterizzato dall’enorme clamore mediatico dell’omicidio di Giulia Cecchettin e della recente condanna all’ergastolo di Filippo Turetta (pena inflitta, si badi, senza che il nuovo reato sia stato introdotto nell’ordinamento giuridico).

La pratica delle leggi “spot” non riguarda solo il diritto penale, ma si estende all’intera attività legislativa. È prassi che dai ministri giungano richieste di nuove norme che servano da meri manifesti politici, rispetto ai quali nessuno si preoccuperà poi di valutare l’efficacia, spesso, oltretutto, subordinata ai famigerati decreti attuativi: provvedimenti di competenza degli apparati ministeriali ed essenziali per disciplinare gli aspetti tecnici e pratici di una legge, insomma, per far sì che questa viva nella realtà. L’obiettivo è solo dimostrare ai cittadini che “lo Stato ha fatto qualcosa”, si è comportato da buon padre di famiglia (18).

Conclusione 

Per concludere, un invito alla classe politica a rispettare i propri elettori, evitando di illuderli circa la possibilità di mutare la realtà con una nuova pubblicazione, un nuovo tratto di penna nella Gazzetta Ufficiale, e un invito a noi, elettori, a pretendere serietà e rispetto dai nostri rappresentanti. Non possono che lasciare perplessi, e, per un certo verso, rattristati, le parole del ministro della Giustizia Nordio, secondo il quale la proposta sul cd. femminicidio costituisce una “svolta epocale” (19).

Tag: Femminicidiodiritto

Continua a leggere

Tutti gli articoli