Oltrefrequenze | 13Hz

OltreFrequenzeMusica

di Giacomo Solari,

Arriva il caldo serio, qualche debutto infiammato, una voce a te cara, la mano sulla spalla, l’ennesima estate malinconica. Buona lettura!

disco

Tether

di Annahstasia
Uscita: 13/06/2025 | Genere: Folk / Chamber-Pop / Country

ASCOLTA

Con Tether, Annahstasia firma un debutto sorprendente, che prende il folk come matrice e lo carica di tensione soul, gesti poetici e forza visiva. Un piccolo cortometraggio, che mette al centro la voce, una voce densa, morbida, ma anche aspra, rabbiosa quando serve, a costruire intorno scenografie ritmiche che mescolino spiritualità e materia.

L’apertura con Be Kind è già un manifesto di ritmo sospeso, di parole che incidono, silenzi che parlano. Una ballata disfatta, che cresce dal sussurro e si trasforma lentamente in un’implosione trattenuta. E poi arrivano i lampi elettrici di Waiting, un pezzo che sfugge al classicismo folk per affondare le mani nel noise emotivo. Qui Annahstasia mostra quanto sia a suo agio nel confine tra dolcezza e rabbia.

C’è un’estetica attentissima al suono, ma mai sterile. Brani come Silk and Velvet e Heaven dimostrano che ogni arrangiamento, tra archi, Mellotron, synth ambientali, è un’estensione del canto, non un orpello. E quando in Slow, in duetto con Obongjayar, le voci si rincorrono come due figure nello stesso sogno, si tocca un’intimità emotiva che non cerca effetti, ma risonanza.

Il tutto culmina in Believer, che chiude il disco come una parabola: prima fragile, poi luminosa, poi apertamente trascendente. Un inno trattenuto, mai pomposo, che suona come un addio e un inizio insieme.

Tether è un album preciso, pieno di carne e di spirito. Mi ha ricordato, a modo suo, Heavy Metal di Cameron Winter, nella sua perizia millimetrica, nel ricostruire un folk estremamente personale. È la prova che una nuova voce può ancora scuotere radici antiche e farle fiorire. Un debutto che non cerca compromessi. E non ne ha bisogno.


disco

About Ghosts

di Mary Halverson
Uscita: 13/06/2025 | Genere: Jazz / Neo-Jazz

ASCOLTA

​​​​​​About Ghosts è un disco che cammina in bilico tra struttura e spirito, tra la grammatica della scrittura e l’imprevedibilità dell’improvvisazione. Mary Halvorson orchestra tutto questo con la lucidità di chi conosce il caos e sa contenerlo. La sua chitarra, ora spigolosa, ora lirica, ora distorta come una fotografia fuori fuoco, diventa il perno attorno al quale si sviluppa un ensemble vivace e perfettamente incastrato.

Fin dalle prime battute il tono è chiaro: jazz non come stile ma come processo. Le armonie si rincorrono, le frasi si spezzano, i fiati dialogano con la chitarra senza mai schiacciarla o farsi schiacciare. Halvorson non cerca l’assolo, ma la relazione. Ed è qui che l’album esplode, nella capacità di far convivere scrittura e ascolto, rigore e sorpresa.

Carved From, il mio pezzo preferito del disco, è un esempio di architettura in movimento, dove ogni cambio ritmico sembra programmato eppure vivo. In Eventidal, invece, si apre uno spazio rarefatto in cui vibrafono e fiati sembrano sospesi sopra una città notturna, tra malinconia e sogno. Anche i brani più brevi, come Absinthian, hanno una densità che impressiona: pochi minuti, ma pieni di traiettorie.

Il tutto pare un addio col fiato in gola, perfettamente coerente con il titolo dell’album, che non parla di spettri in senso narrativo ma come tracce, presenze, impressioni che restano.

Halvorson continua a espandere la forma del jazz da dentro, senza snaturarla. Si può essere rigorosi e liberi, cerebrali e intensamente emotivi. Ed è così che si fa musica viva.


disco

Hymnal

di Lyra Pramuk
Uscita: 13/06/2025 | Genere: Ambient

ASCOLTA

Con Hymnal, Lyra Pramuk firma un disco strano, il suo disco più intimo, spirituale, ma allo stesso tempo anche universale. Qui la voce è materia prima, si sdoppia, si moltiplica, si trasforma, diventando spazio, eco, orgasmo e organismo. Ogni traccia è un lamento lontano dai dogmi, una celebrazione del corpo, del suono, della natura come flusso continuo.

L’apertura di archi solenni riporta ad Arvo Pärt e i tappeti vocal si intrecciano come una spirale di cellule viventi. La voce di Pramuk entra poco alla volta, costruendo un paesaggio in cui sacro e profano si confondono. Meridian segna uno dei momenti più intensi dove le parole emergono, e lo fanno con una lucidità profetica, attraversando lo spettro tra parlato e canto come gesto di incarnazione.

Ma è in Solace che l’album raggiunge il suo picco emotivo, qui la voce si fonde con il suono ambientale come se fosse acqua, respiro, pianta che cresce. Non c’è dolore esplicito, ma una profonda accettazione. È un gesto sonoro che porta conforto, senza mai semplificare.

In un mondo frenetico, Pramuk ci invita alla lentezza, alla cura, alla trasfigurazione. E lo fa con una lingua tutta sua, fatta di respiro, di radici, di luce.


disco

The Universe Will Take Care Of You

di James Holden, Waclaw Zimpel
Uscita: 13/06/2025 | Genere: Experimental / Electronic

ASCOLTA

Cosa succede quando due musicisti radicalmente diversi per linguaggio e formazione (uno architetto del suono sintetico, l’altro sciamano del respiro acustico) si rinchiudono in studio per sei sessioni distribuite nel tempo, senza spartiti e senza confini? Nasce The Universe Will Take Care Of You, che non è un album in senso classico, ma un ambiente da abitare.

Qui non si tratta di ascoltare una narrazione, ma di entrare in una conversazione tra correnti sonore. Holden lavora con i moduli come fossero entità vive, ogni suono pulsa, sbaglia, si corregge, cresce. Zimpel, invece, costruisce ponti con legno e fiato, clarinetti, algoza, strumenti a canne e micro-percussioni che danno corpo e fragilità alla trama. Insieme, non si inseguono, si orbitano.

Time Ring Rattles è un invito discreto di loop ripetitivi, armonici sfocati, tocchi di percussioni come schegge. C’è qualcosa di Caterina Barbieri nella costruzione circolare, ma la presenza umana è più calda, come se il computer stesse respirando accanto a te. Si scivola poi in Flashes Do Not Flash Back, brano meditabondo che sembra spargere silenzio più che suono. In quei vuoti si intravede il Frahm più spoglio, ma anche echi di Arve Henriksen nei passaggi fiato-su-fiato.

Nella seconda metà il movimento si fa più materico. Patterns We Left in our Wakes costruisce traiettorie ritmiche inarrestabili, mentre Hand Full aggiunge dettaglio e intensità, come se Steve Reich fosse stato lasciato in sala prove con Jan Jelinek. C’è precisione e c’è trance, ma anche tensione. I pattern si piegano, si incrociano, si aprono in spazi armonici inattesi.

Il brano finale, la title-track, non chiude. Si espande. Comincia come un salmo attraverso organi armonici, soffi lunghi, loop lievi, per poi lasciare affiorare una linea melodica dolcissima che non arriva mai al punto, ma che basta. Non c’è climax, non c’è liberazione. Solo accettazione. La fiducia implicita che il tempo, il suono, la materia, troveranno da soli la propria forma.

The Universe Will Take Care Of You si ascolta mentre si scioglie. Non promette nulla. Ma accompagna. E lo fa con l’eleganza di chi non ha bisogno di spiegare.


disco

Raspberry Moon

di Hotline TNT
Uscita: 20/06/2025 | Genere: Rock / Indie-Rock

ASCOLTA

​​​​​​Raspberry Moon è uno di quei dischi che sembrano spuntare dal nulla ma che, una volta ascoltati, ti fanno pensare che fossero già lì da sempre, solo nascosti sotto un pile usato, in un’auto parcheggiata sotto la pioggia. È il tipo di indie-rock che non cerca innovazione, ma prossimità. Ti si siede accanto e suona. Senza chiederti niente. Ma se ascolti bene, ti accorgi che sotto la patina fuzzy c’è una scrittura precisa, fatta di ferite minime e verità a bassa voce.

La band, ormai pienamente collettiva, lavora sulle frasi brevi, sulle melodie trasversali, su quel confine sottile tra slancio e freno. Non c’è mai un’esplosione totale, ma ogni canzone vibra come un muscolo teso. Le chitarre sono impastate, sì, ma mai caotiche. Pensate più a una coperta troppo corta che a un muro di suono: qualcosa che scalda, ma lascia sempre scoperti i piedi.

Le coordinate sono note, dai My Bloody Valentine e i Yo La Tengo ai Teenage Fanclub meno solari. Il romanticismo non è lirico, ma maldestro. E quindi vero. I testi sono pieni di frasi che potresti dire a qualcuno che ami, ma solo in macchina, di sera, senza guardarlo.

C’è anche un senso di gruppo, un’aria di band vera, che si è formata suonando, non costruendo un’identità online. Ogni pezzo ha il sapore di qualcosa provato cento volte in sala prove, ogni batteria ha la pancia di chi ha imparato il tempo ascoltando i Pavement e battendo le dita sul banco. Si sente che suonano insieme. E che si vogliono abbastanza bene da lasciare gli errori al loro posto.

Questo album non inventa niente, ma ha tutto. È pieno di cose che hai già sentito, ma nessuna suona come una replica. È come trovare una vecchia foto che non ricordi di aver scattato, ma che ti ritrae perfettamente.

E forse è questo che fa la differenza. Non ti viene voglia di dire che figata, bensì ti viene voglia di suonarlo di nuovo.


disco

McCartney, It’ll Be OK

di UNIVERSITY
Uscita: 20/06/2025 | Genere: Post-Hardcore

ASCOLTA

Il bello di un esordio come McCartney, It’ll Be OK è che non puoi ascoltarlo in sottofondo. Non ti lascia nemmeno il tempo di capire dove stai mettendo i piedi. UNIVERSITY parte in corsa, come se avessero suonato venti concerti prima di premere REC. È un disco che non presenta, non spiega, non introduce. Travolge. E lo fa con l’ostinazione e l’entusiasmo devastato di chi sa benissimo che questa è l’unica possibilità che ha per dire tutto.

Il suono è stratificato e violento, ma non gratuito. Noise? Sì. Ma tenuto insieme con la precisione di un collage emotivo, la furia dei Lightning Bolt, l’estetica da dropout dei Black Midi, ma con qualcosa di più fisico, più adolescenziale. 

Non c’è distinzione tra ironia e tragedia. Il tono cambia ogni trenta secondi. Una strofa urla il caos urbano, la successiva si scioglie in un ritornello sghembo che sembra scritto da un Jonathan Richman strafatto di free jazz. Il titolo del disco è già una frase su una t-shirt. Un mantra tenero e implausibile, come lo sguardo di chi ti sorride con gli occhi rossi e ti dice “fidati”.

Eppure non è rumore per il gusto di distruggere. C’è una logica interna, per quanto sghemba. Le linee melodiche ci sono, solo che si fanno desiderare. Le strutture ci sono, ma sembrano ricalcate da mappe stradali spiegazzate. Ogni tanto emerge un momento di ordine, una frase cantata dritta, una chitarra pulita. Ma è solo per farci capire che sì, per fortuna, semplicemente non vogliono esserlo.

Quello che rimane, alla fine, è un’energia. L’impressione finale è che questa band non sia interessata a piacere, ma a esistere. A buttare sul tavolo tutto quello che ha, tra disagio, sarcasmo e desiderio, per poi vedere se qualcuno lo raccoglie. E se non lo fa, pazienza. Si cercano alleati. Se lo ascolti e ti ci ritrovi, è tuo. Altrimenti, puoi anche andartene. Non se ne accorgerà nessuno.


disco

Scratch it

di U.S. Girls
Uscita: 20/06/2025 | Genere: Alt-Pop / R&B

ASCOLTA

Meg Remy con Scratch It non si limita a pubblicare un disco: mette in scena un rituale musicale disordinato, potentemente incarnato, politicamente urgente e profondamente divertente. Prende il country, il gospel, il pop da balera, li mastica, li smonta, li incendia e poi li riordina con nuova carne e nuove voci. Il risultato è un’opera mitopoietica e instabile. Piena di graffi e risate che non consola, ma sveglia.

Il tono è dichiarato fin dai primi secondi. Like James Said è gospel portato al limite dell’implosione, con cori slabbrati e percussioni che sembrano registrate su una cassetta dimenticata in una cantina evangelica. Ma non c’è malinconia, c’è vitalità, sudore, isteria sonora. Il disco marcia su tamburi da parata e inciampa su effetti lo-fi, attraversando paesaggi elettrici dove le melodie si sciolgono nel riverbero come lettere scritte sotto l’acqua. A tratti sembra una parodia devota del southern rock, a tratti una veglia laica condotta da un gruppo di amiche con troppa birra e troppe cose da dire.

La cosa straordinaria è che, pur muovendosi tra generi e intenzioni, Scratch It riesce a tenere il punto. Il cuore pulsante non è musicale, ma emotivo e politico. Ogni brano è un episodio, un’idea incarnata in voce. Come in Dear Patti, una lettera d’amore a Patti Smith che diventa confessione, dichiarazione, interrogazione dolceamara sulla maternità e il corpo. Il tono è tenero, ma il gesto è feroce. È uno di quei pezzi che sembrano minuscoli ma fanno male dopo. Più tardi. Come una frase che capisci solo la sera, quando spegni le luci.

Il baricentro del disco, però, è Bookends. Dodici minuti di flusso lento, visionario, ipnotico, dove il country diventa psichedelia dal respiro lungo. Come se Gram Parsons fosse stato registrato dai Broadcast. 

I riferimenti non sono pochi, ma non pesano. C’è l’energia teatrale di St. Vincent, certo, ma senza distacco. C’è la sincerità filtrata e surreale di Joanna Newsom, ma con meno fiaba e più terriccio. E poi c’è il cuore soul alla Mavis Staples, senza moralismi, solo carne e voce. Tutto risuona, ma nulla è imitazione. Meg Remy gioca con questi materiali come si gioca con una maschera: la indossa, la distrugge, la reinventa.


13/06/2025 - 26/06/2025

OltreFrequenze

La rubrica che vi porterà alla scoperta dei migliori nuovi album, selezionati per accompagnare la vostra quotidianità e offrirvi il meglio della scena musicale. A cura di Giacomo Solari

Continua a leggere

Tutti gli articoli