Birthing è il diciassettesimo studio-album dei Swans, un colosso sonoro della durata impressionante di 115 minuti, concepito come il canto del cigno dell’era del “grande suono” celebrata da Michael Gira. Registrato durante un anno di tour tra il 2023 e il 2024 e inciso poi in studio, rappresenta, decisamente non nella versione migliore, la summa delle intensità perpetrate dalla band negli ultimi vent’anni.
Fin dall’imponente apertura con The Helaers e I Am a Tower, due brani di circa venti minuti l’uno, l’album afferma la sua forza monumentale, fungendo da mistica epifania, una doppia esposizione sonora di maestosità. Non è un inizio, bensì una transizione: attraversare l’utero oscuro per emergere in un mondo di droni, ossessioni ritmiche e abissi vocali.
I primi tre pezzi fluiscono senza tregua, costruendo un rito sonoro che diventa sempre più opprimente. È una ciclicità ipnotica che avanza, digrigna denti e soffia turbine di rumore, fino a che un soffio di quiete con Red Yellow si palesa come breve risveglio, senza mai veramente spegnere la tensione.
La traccia centrale Guardian Spirit richiama le grandi stratificazioni di To Be Kind e The Glowing Man, dimostrando che il motore Swans è tutt’altro che esausto, riuscendo ancora a perforare il petto, con crescendo brutalmente trascendenti.
Nel cuore dell’album si alternano momenti di pura furia rituale e placide dissolvenze post‑organiche, crescendi che fondono glitch‑core, esplosioni di chitarre e voci statuarie, una sorta di incubo previsto eppure sbalordente nella sua adesione alla violenza sonora.
Musicalmente è un mosaico di droni distesi, synth ossessivi, percussioni rituali, un bestiario di suoni che affonda radici nella tradizione industrial‑no‑wave ma si eleva con l’attitudine post‑rock contemporanea.
Non è un album facile o consolatorio, non è neanche lontanamente il migliore dell’evoluzione Swans post 2010, pretende attenzione, respiro, fiato sospeso, a mio avviso forse anche inferiore di The Beggar. È un parto titanico, privo di consolazioni immediate, stiamo comunque parlando di una delle migliori, nonché più innovative band degli ultimi 40 anni e un album “meno bello dei precedenti” dell’organico capitanato da Gira surclassa il 90% della restante musica.
Gira stesso conferma che, con Birthing, questo sarà l’ultimo grande affresco orchestrale; la band si avvierà verso un suono drasticamente più essenziale, come se, superata la bufera, si cercasse un silenzio nuovo, più nudo e diretto. Vedremo.
Con caroline 2, l’ensemble londinese raggiunge una maturità impressionante, costruendo un’opera compatta, ispirata e luminosa. Ogni brano è un atto di coesione creativa che non lascia spazio a dubbi. La band sembra sempre sapere perfettamente dove sta andando e il viaggio è tanto emozionante quanto calibrato. L’inquietudine del primo album lascia il posto a una lucidità espressiva che colpisce per intensità e precisione.
L’apertura con Total Euphoria è un manifesto di potenza emotiva e visione. I crescendo non sono mai convenzionali, ma costruiti con una sapienza ritmica che travolge. La struttura sfugge agli schemi, ma ogni deviazione ha uno scopo, ogni scelta sonora arriva con una forza chiara e determinata.
Brani come When I Get Home e U R UR ONLY ACHING mostrano quanto caroline sia diventata una macchina da camera perfettamente sincronizzata. Gli archi, le chitarre e le voci si intrecciano in armonie precise e struggenti, con un’eleganza compositiva che richiama i Godspeed You! Black Emperor più lirici e la cura timbrica dei Dirty Projectors più rigorosi.
Ogni elemento è calibrato con maniacale dedizione. I momenti più ariosi e contemplativi, come Song two o l’eterea Tell Me I Never Knew That (con un cameo incantevole di Caroline Polachek), non sono intermezzi, ma stanze narrative dove la bellezza si distende e si fa spazio. Anche i brani più giocosi e destrutturati, come Coldplay cover, non suonano come esercizi di stile, ma come aperture necessarie in un corridoio sonoro sempre coerente.
A livello produttivo, caroline 2 è un lavoro impeccabile. Ogni suono respira, ogni transizione ha un peso, ogni pausa è densamente musicale. È un album che suona collettivo, ma con una chiarezza espressiva quasi chirurgica. L’ascolto è avvolgente. Si entra dentro, si resta, si esce trasformati.
Lo dirò, caroline è forse la mia band preferita del momento. La qualità media delle band nello scenario alternative globale è davvero altissima. Fatto sta che il suono si fa sempre più convergente e quando anche realtà come Black Country, New Road finiscono per essere scopiazzate a destra e manca, la lucidità dei caroline di saper alzare il volume, di usare il tre quarti in Tell Me I Never Knew That, di infilare passaggi di pitch vocale chirurgicamente, tutto diventa alta cucina, esperimento e bilanciamento. Ogni gusto e sapore trova il suo spazio.
In Endling, Qasim Naqvi narra attraverso moduli analogici dell’ultimo sopravvissuto umano, vagante in panorami post-umani. Il concept mi ha ricordato Last And First Men di Glotman e Jóhannsson, ogni traccia un capitolo di un romanzo sonico, non droni sterili, ma arpeggi vibranti, rumori fusi a melodie sottili, suggestioni che richiamano Eno, Lucier e il mondo sonoro di Haxan Cloak. Power Down the Heart, con l’immensa partecipazione vocale di Moor Mother nei panni di un’IA morente, equilibra ombra e luce; un drone minaccioso si apre a melodie eteree e offre un barlume di speranza, pur lasciando un senso di disfacimento. Il culmine emotivo arriva in The Great Reward, epilogo silenzioso in cui l’eco dell’intera narrazione rimbomba nella quiete finale, suggerendo che l’unico premio per la devozione è il nulla eterno, non per questo meno potente.
Alan Sparhawk with Trampled by Turtles
di Alan Sparhawk, Trampled by Turtles
Uscita: 30/05/2025 |
Genere: Folk
Alan Sparhawk, co-fondatore dei Low, torna a misurarsi con il lutto e la rinascita in Alan Sparhawk With Trampled by Turtles, registrato in due intensi giorni negli iconici Pachyderm Studios. A un anno dalla dolorosa perdita di Mimi Parker, sua compagna nella vita e nella musica, Sparhawk si affida all’abbraccio di una band, i Trampled by Turtles. Non è un album minimalista. Ogni sommesso riff di fiddle, banjo o mandolino trabocca di empatia. Non una band di accompagnamento, bensì un coro di vicinanza, sembrando quasi che i vari componenti suonino per lui, non con lui. La voce di Sparhawk qua è nuda, senza l’invadente autotune dell’ultimo progetto avant-pop.
Il cuore del disco è Screaming Song, una tempesta emotiva. Qui la voce si fa tuono, il fiddle ringhia come un animale liberato dal guinzaglio. Il primo ascolto mette davvero in difficoltà. Emergono anche qua e là i semi della guarigione in pezzi come Too High e Princess Road Surgery, sketch scritti insieme a Mimi, qua a vivere di una commovente leggerezza. Not Broken infine sfiora la trascendenza, la figlia Hollis interviene quasi come una presenza spirituale, cantando con papà e suggellando il legame familiare e musicale.
Le rivisitazioni acustiche di Heaven e Get Still, originariamente tracce elettroniche su White Roses, My God, ora respirano in queste forme rurali, quasi a suonare più radicate, più sincere, allocate in uno scenario familiare e comunitario.
Alcuni fan avrebbero probabilmente sperato in un proseguimento del pop astratto del disco precedente ma per gli ammiratori di Low e della loro missione lenta e profonda, l’album è un balsamo perfettamente calibrato.
Seppur meno struggente di progetti come, ad esempio, A Crow Looked at Me di Mount Eerie del 2017, qua è proprio la brina della mattina dopo la notte di tempesta a mettere in soggezione. Senza contare che era da tanto tempo che non sentivo un disco di folk/americana puro, quasi classico, di questa qualità.
Гільдеґарда
di Heinali, Andriana Yaroslava Saienko
Uscita: 30/05/2025 |
Genere: Ambient / Drone / Noise
Qua si fonde la sacralità del canto medievale con la ferita del presente. Heinali, compositore elettronico ucraino, e Andriana Yaroslava Saienko, interprete del canto folk autentico, convertono due canti gregoriani autentici in un linguaggio drone e rituale. Non un omaggio remoto, bensì un’immersione totalizzante, un rito di veglia che si spinge all’abissale.
L’album si sviluppa in due lunghe tracce da venti minuti circa l’una. Entrambe eseguite con un respiro profondo, il patch sintetico avvolge e amplifica la voce incandescente di Saienko. Una stagione di ascolto che penetra e nutre, tra fisicità vocale ed eco antiche.
Saienko interpreta i soli vocali con la tecnica ucraina “avtentyka”, ovvero un canto vivo, vulnerabile, corporeo. La sua voce oscilla tra riverbero liturgico, come in un’abbazia, e una prossimità dolorosa, quasi sacrale. Un’immediatezza che dona sacralità. E quando la voce torna all’intimità del microfono, diventa canto da chiesa domestica, canto da esodo.
Heinali costruisce attorno a lei un’idea di drone allungato, patch modulari a richiamare un’antica polifonia e rumori industriali, creando un continuum tra medievale e meccanica contemporanea.
La tradizione si trasforma in atto di memoria e resistenza. Musica come testimonianza, così come un canto può farsi eco di guerra.
Aesop Rock firma un disco quietissimo, toccante, e lontano dalle paranoie iper-sature e dalle sinapsi a valanga dei lavori passati, qui ci si muove con lo sguardo rivolto verso l’interno, verso la vita quotidiana che scorre tra animali domestici, stranezze botaniche e passeggiate solitarie. Una meditazione sull’età, sul linguaggio e sull’osservazione come atto di sopravvivenza.
Siamo sempre nel suo mondo fatto di lessico vertiginoso e costruzioni labirintiche, ma l’energia qui è più rarefatta, quasi pastorale. Black Hole Superette è un album domestico, fatto di silenzi e spazi che respirano, come se MF DOOM si fosse preso una pausa nella campagna dell’Oregon. Il ritmo è diluito, i beat autoprodotti sono stratificati ma mai invasivi. Non c'è euforia da cypher, ma la concentrazione di chi cura una serra idroponica nel seminterrato. Ed è lì che avviene tutto.
In Snail Zero, le lumache diventano protagoniste di un’epica minimale, un’ossessione micro-zoologica che sa di diario notturno e lente d’ingrandimento. Bird School è quasi una preghiera ornitologica, mentre So Be It funziona come manifesto implicito: prendere le cose come sono, senza tragedia e senza retorica. È rap come riflesso, non come affermazione.
La produzione, tutta sua, suona come un’evoluzione controllata: sintetizzatori morbidi, pattern che sembrano fluttuare, breakbeat sgranati come vecchie VHS. Aesop non cerca la hit, ma l’ambiente giusto per far risuonare le sue immagini. In certi momenti, si avverte l’eco di RJD2 più atmosferico, o del Madlib di Shades of Blue, ma sempre filtrato da una sensibilità del tutto personale. Anche i brani più giocosi – Unbelievable Shenanigans, Checkers – mantengono un tono da stoner filosofico che pensa a voce alta, tra una corsa in bici e un ricordo scolorito degli anni '90.
E non è un caso che alcune delle tracce più riuscite siano quelle dove il flusso si fa più contemplativo. The Red Phone, con i suoi synth retrò e i battiti rallentati, sembra un documentario astratto sull’ansia civile mentre Black Plums è quasi una poesia zen su uno sfondo di tastiere liquide e silenzi che parlano.
Black Hole Superette è anche un disco che affronta l’età adulta senza mascherarla. Nostalgico no ma neanche pretenzioso.
I’ll Be Waving as You Drive Away
di Hayden Pedigo
Uscita: 06/06/2025 |
Genere: Americana / Rock / Instrumental
Hayden Pedigo completa la sua Motor Trilogy in modo inaspettatamente sincero. Qui non c’è più l’ironia farsesca dei suoi outfit stravaganti o delle trovate istrioniche. Siamo di fronte a un album che respira davvero, costruito sugli spazi aperti del Texas ma attraverso un filtro pulito e meditativo.
Pedigo abbandona i meccanismi ironici e si ritrae dentro paesaggi sonori intimi, evocando John Fahey e Daniel Bachman per poi divergere. Long Pond Lily si apre con un'atmosfera calda, con arpeggi acustici coronati da tocchi psichedelici. Presto la malinconia si fa più densa con Smoked, disponendo di un tappeto di mellotron e droni ad avvolgere il fingerpicking in un’ombra inquietante, come se i ricordi accumulati dal tempo tornassero a farsi spazio.
La sovente opposizione tra la chitarra acustica e il pianoforte o la viola sottolineano il senso di viaggio, di lunghe distese attraversate in solitaria. È un rapporto sottile tra suono e silenzio, tra vuoto e pienezza, dove ogni nota costruisce un quadro più grande di sé.
E quando arriva il brano che dà il titolo all’album, non è un attacco epico ma una serenata essenziale, un picking alla Chet Atkins rivestito di sincerità, quasi rifugiato nella sua trasparenza, potente proprio per la sua semplicità.
Il disco non dura neanche trenta minuti, ma è compressione ed espansione insieme. L’hauntological nostalgia, la sensazione che il West non sia mai esistito davvero, è sempre presente ma Pedigo la abita con una eleganza che usa il consueto pathos folk come punto di partenza, non come rifugio.
Con Exploration, i Calibro 35 ritornano alla loro radice, a quel suono che sembrava estratto da un noir alla Milano Calibro 9, per consegnarci un viaggio che è insieme omaggio e rivisitazione. È come se fossimo seduti di nuovo in uno studio degli anni Settanta, con la luce che filtra da una persiana, mentre la band ritocca i temi su cui ha costruito la propria reputazione.
L’album parte con Reptile Strut, traccia autoprodotta che riesce a divertirsi e incalzare allo stesso tempo; basso funk, chitarra distorta, un contrappunto di sassofoni che sembra rubato ai titoli di testa di una spy‑serie. È già manifesto. E quel manifesto prosegue nei successivi brani con le riletture di Discomania di Piero Umiliani, Jazz Carnival degli Azymuth, Coffy Is The Color di Roy Ayers, e Nautilus di Bob James. Tali più che cover sono materializzazioni spiritose e moderne di un immaginario collettivo. Calibro 35 non cita passivamente, evapora la fonte originale, la plasma, poi la fa esplodere di groove fresco.
Il nucleo dell’album è una sorta di bottega alchemica di vintage futurism. Brani come The Twang o Pied De Poule sembrano colonna sonora di un noir ambientato in un futuro alternativo, dove l’uomo col trench e il cappello a falda larga punta lo sguardo non al passato, ma alla versione più cool del futuro retrò.
Mission Impossible è un classico rilancio di riff che rimbalzano sul tempo, sospesi tra eco Schifrin e una tensione moderna. Lunedì Cinema chiude l’album con un bossa-disco con ospitata di Marco Castello che si fa cerimonia.
30/05/25 - 12/06/2025
