Un bilancio del governo Draghi

Quasi un anno fa - era il 3 febbraio, giorno della convocazione al Quirinale di Mario Draghi – su queste colonne ci chiedemmo che governo sarebbe stato quello affidato all’ex presidente delle BCE. Chi scrive ipotizzò 3 scenari:  un governo in balia delle isterie di una maggioranza rabberciata, un governo a tempo con l’unico obiettivo di implementare ed attuare piano vaccinale e PNRR, un governo di compromesso tecnico/politico che non avrebbe cambiato la natura autolesionista del Paese.

E’ giunto il momento in cui si può fare una valutazione dell’esperienza Draghi e dei suoi effetti sullo stato di salute dell’Italia.

Quello lasciato da Conte era un Paese stremato dal lockdown e dalle zone rosse, con un piano vaccinale indefinito clamorosamente rappresentato dai padiglioni primula, con un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza incompleto e confusionario.

E’ apparso subito chiaro che la missione di Draghi sarebbe stata evitare nuovi lockown, raggiungere nel più breve tempo possibile la sufficienza vaccinale e presentare alla Commissione Europea un PNRR coerente con gli obiettivi e chiaro nella sua applicazione. Questi 3 obiettivi sono stati raggiunti. Non abbiamo più dovuto subire chiusure, il tasso di somministrazione delle dosi vaccinali è rapidamente passato da valori del 65% a percentuali superiori al 90%, il PNRR è stato promosso dalla Commissione prima della scadenza del 30 aprile.

Sullo sfondo ci si chiedeva se Draghi sarebbe stato capace (o determinato) ad approfittare delle condizioni straordinarie in cui si trova il Paese per mettere in pratica le buone norme che, prima come governatore della Banca d’Italia e poi come presidente della Banca Centrale, aveva invocato.

Cosa è stato fatto

In particolare ci si chiedeva se Draghi con la sua autorevolezza sarebbe riuscito (o solo avesse tentato) ad “educare” la politica italiana alla razionalità e al debito “buono”. Nel discorso pronunciato al Senato prima del voto molti erano stati i passaggi che avevano generato fiducia: una inusuale attenzione alla scuola e ai giovani, la necessità di procedere con riforme organiche in materia di fisco e ammortizzatori sociali, finalmente una legge sulla concorrenza che mancava dal 2017. Ma fuori dall’aula del Senato questi propositi sono rimasti inattuati. La scuola è rimasta quella che era pre-covid e non è stato fatto niente neanche sotto il profilo logistico, tanto è vero che l’ombra della DAD resta uno scenario possibile nel caso di recrudescenza della pandemia.

L’annunciata riforma del fisco è per ora rappresentata da una risicata ridefinizione delle aliquote permessa più dallo spazio in bilancio che si è aperto grazie ad una ripresa più sostenuta rispetto alle previsioni di primavera che da un quadro di proposte organico uscito dall’indagine conoscitiva della Commissione Finanze. Non è intenzione di chi scrive entrare nella polemica sterile di questi giorni, alimentata da il Fatto Quotidiano, sui benefici della riduzione delle imposte: i vantaggi si misurano sempre in valori relativi e non assoluti; ovvero chi ha reddito incapiente e quindi non paga imposte (o le paga in misura ridotta) è normale che abbia minori benefici rispetto a chi subisce un’imposta sul reddito.

La legge sulla concorrenza è arrivata ad ottobre invece che a luglio e non avrà effetti, semmai li avrà visto l’ostracismo di partiti e sindacati, prima della fine del 2022.

Ma ci sono tre documenti, rilasciati quasi contemporaneamente, che danno la misura dell’enorme occasione sprecata da questo governo.

La legge di bilancio
Ai partiti è stata lasciata mano libera di falcidiare i conti pubblici con la Legge di Bilancio. Il testo approvato dal Senato (e giunto alla Camera senza più il tempo neanche di una lettura) è pieno del solito sciocchezzaio cui siamo abituati. Ne cito solo alcuni per dare la misura della schizofrenia spendacciona della politica italiana: bonus rubinetti, bonus tv, fondo per enogastronomie e pasticcerie (mentre viene cassato il bonus per le cure psicologiche a favore di chi ha subito traumi a seguito della pandemia); per non dire di quell’obbrobrio disperatamente difeso dal Movimento 5 Stelle che va sotto il nome di bonus 110% cui è stato rimosso anche il tetto ISEE per villette unifamiliari: il più assurdo e gigantesco dei trasferimenti di risorse dai “poveri” ai “benestanti”.

Il risultato è una finanziaria non diversa da quelle dei governi precedenti in cui prevalgono logiche corporative, clientelismi e finanza allegra.

Il Patto di Stabilità

Il secondo documento è un paper sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita frutto del patto del Quirinale fra Italia e Francia a firma Giavazzi-Guerrieri-Lorenzoni-Weymuller

Il PSC è stato sospeso nel marzo 2020 grazie ad una clausola contenuta nel patto stesso denominata General Escape Clause. Che le regole di bilancio europeo sarebbero state riviste dopo la fine dell’emergenza è evidente per molti motivi. Prima di tutto perché sono regole vecchie che fotografavano una situazione pre Unione.

In secondo luogo perché non sono quasi mai state applicate; si pensi all’Italia e alla regola di riduzione di un ventesimo l’anno del rapporto debito/pil. Quando entrarono in vigore i due pacchetti di norme contenenti la regola del debito (six pack e two pack) il rapporto debito Pil italiano era al 119,7%; 8 anni dopo, nel 2019 prima della pandemia, il rapporto debito Pil era al 134,6%. All’interno di quest’arco temporale, in piena applicazione teorica della regola del debito, una traiettoria quasi sempre di crescita.

Tralascio per questioni di spazio i tecnicismi legati ad output gap e indebitamento strutturale. Il dato di fatto è che il PSC non è mai stato applicato per volontà politica tanto dei singoli membri della UE quanto della Commissione.

In terzo luogo perché lo stato dei conti pubblici post pandemia è profondamente diverso da quello pre 2020. Il rapporto debito Pil medio in area euro è aumentato di 15 punti. In Francia è cresciuto di 17 punti, in Spagna di 25, in Italia di 21. Lasciare un target al 60% è utopico.

Il lavoro di Giavazzi et al. propone due soluzioni:

  1. il trasferimento del debito accumulato durante la pandemia ad un ente sovranazionale (gli autori suggeriscono potrebbe essere il MES), una European Debt Agency. Il debito pandemico ammonta per l’Italia a 164 miliardi, il 6% dello stock di debito cumulato a fine 2021. Questo debito verrebbe coperto a scadenza con nuove emissioni da parte dell’Agenzia. Tecnicamente è possibile, e relativamente facile, ma ci sono due incognite: la prima alle, in alcuni casi, enormi differenze fra Stati Membri in termini di debito. Per intenderci, se da una parte ci sono Paesi come quelli citati sopra che hanno incrementato di molti punti percentuali l’indebitamento, dall’altra ci sono Paesi che, per circostanze che non val la pena qui discutere, sono stati molto più accorti. La Germania ha peggiorato il rapporto di 10 punti, la Danimarca di 8, l’Olanda di 6, la Svezia di 5, l’Irlanda solo di 1,2 (e nel 2021 già riduce il rapporto debito Pil rispetto al 2019 dell’1,6). Trasferire il debito 2020 ad un’agenzia comunitaria significa premiare ancora una volta chi ha fatto peggio.
  2. Una ridefinizione delle regole fiscali che escluda dal percorso di riduzione del debito le spese coerenti con gli obiettivi del Next Generation EU. Questo capitolo di spesa l’hanno definito “spending for the future”. All’interno del capitolo andrebbero sicuramente le spese, e gli investimenti, per la transizione energetica, ma potrebbero andare anche tutte le spese che hanno come obiettivo dichiarato la crescita. E’ facile intuire che la tentazione di ogni governo è quella di includere come misure per la crescita tutte le spese; pensiamo a Quota 100 passata come ricambio generazionale e come sostituzione con tasso 3:1 dei lavoratori; o al Reddito di Cittadinanza che avrebbe dovuto migliorare i saldi occupazionali. Si favorirebbe dunque l’azzardo morale e la spesa tout court alla quale è facile dare la patente della crescita.

 

Che ne è del debito buono evocato da Draghi al congresso di Comunione e Liberazione? Che ne è della responsabilità di utilizzare bene i prestiti e i trasferimenti (altre parole di Draghi) che i cittadini europei stanno dando all’Italia e agli altri Paesi sovraindebitati?

 

Il PNRR

Il terzo documento è la relazione inviata a Commissione e Parlamento sullo stato di attuazione del PNRR.

In questo documento, fondamentale per l’ottenimento della prima rata di finanziamenti da 21,4 miliardi, vengono confusi milestones con target, riforme con atti normativi che delegano il governo a proporle, obiettivi con aspettative (si veda ad es. la tabella 2 della relazione).

Siamo di fronte in altre parole ad un documento pieno di omissioni e confusioni ben diverso da quello che ci si sarebbe aspettato da un governo serio ed autorevole quale vuole essere.

Se questo è il viatico della fase attuativa che ci aspetta, meglio sperare che il fardello di debito aggiuntivo che stiamo per accollarci prenda altre strade. Negli anni a venire i progetti finanziati dal PNRR, alcuni dei quali proposti dagli enti locali imbarazzanti, dovranno essere a) cantierizzati, e manca ancora un nuovo codice appalti più efficiente di quello attualmente in vigore b) collaudati e messi in produzione c) monitorati per il valore aggiunto che generano. 
Si ricorda spesso che L'Italia ha un pessimo track record nell'utilizzo dei fondi europei. Correttamente si attribuisce questa incapacità al mix di burocrazia cervellotica e invasiva e alla consolidata inefficienza delle amministrazioni pubbliche. Se non si cambia questo stato di cose (e nulla è stato fatto in quella direzione) non si comprende come si possano concludere 236 miliardi (191,5 da NGEU + fondi aggiuntivi) di investimenti in 5 anni. 

 

 

Conclusioni

 

Con il Governo Conte II l’Italia era ad un passo dal baratro. Un esecutivo non credibile che stava per far saltare lo sforzo di solidarietà che la UE aveva affrontato con NGEU. La gestione dell’emergenza economica era quasi interamente affidata ad uno storico (oggi sindaco di Roma) e quella dell’emergenza sanitaria ad un commissario straordinario senza competenze di logistica e di teoria dei prezzi.

Il Governo Draghi era necessario per correggere una china pericolosa che avevamo intrapreso.

Ma neanche il Governo Draghi si è dimostrato sufficiente a rendere l’Italia un Paese finalmente serio. Ancora una volta ha vinto la politica.

 

 

 

 

 

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