La diplomazia di Trump, la risposta europea e il destino dell’Ucraina tra Anchorage e Washington

Lunedì 18 agosto 2025, Washington, Wikimedia Commons

Estero

di Daniele Reggiardo,

L’approccio personalistico e imprevedibile di Donald Trump ha scardinato le tradizionali logiche dell’Alleanza atlantica, costringendo i leader europei a un tentativo di bilanciamento per difendere non solo Kyiv, ma l’intera architettura di sicurezza del Vecchio Continente.

1. I fatti tra il 16/08/2025 e il 18/08/2025

Il 16 agosto 2025, il presidente statunitense Donald Trump e l’omologo russo Vladimir Putin hanno tenuto un summit presso la Joint Base Elmendorf-Richardson di Anchorage, Alaska: un sito storicamente rilevante in quanto base di monitoraggio durante la Guerra fredda. I due presidenti sono giunti simultaneamente e si sono incontrati per un dialogo privato, affiancati dalle rispettive delegazioni. I colloqui, protrattisi per circa tre ore, non hanno determinato un avanzamento decisivo sui temi trattati. Ciononostante, entrambi i presidenti hanno concordato di aver individuato una base comune che potrebbe facilitare il progresso verso una risoluzione pacifica del conflitto in Ucraina. Al termine dell’incontro, Trump e Putin hanno rilasciato una dichiarazione congiunta alla stampa della durata di circa 15 minuti, durante la quale il presidente russo ha esteso un invito ufficiale a Trump per un futuro incontro a Mosca.

Se da una parte Zelenskyy è stato escluso, uno spiraglio di umanità lo ha offerto Melania Trump con la sua lettera a Putin nella quale gli chiede di fermare le deportazioni dei bambini. Va comunque detto che, durante l’incontro, la Russia ha continuato a bombardare l’Ucraina con l'uso di almeno 97 droni e 2 missili balistici (1) e che durante il meeting il premier inglese Starmer ha dichiarato che in caso di cessate il fuoco il Regno Unito sarebbe stato pronto a intervenire in Ucraina entro una settimana (2).

Tre giorni dopo l'incontro in Alaska, il 18 agosto 2025, Trump ha convocato a Washington il presidente ucraino Zelenskyy insieme a diversi leader europei, tra cui il tedesco Merz, il britannico Starmer, il francese Macron e l’italiana Meloni. La ragione di questa convocazione improvvisa, probabilmente, era la preoccupazione europea che Trump potesse imporre a Kyiv un accordo di pace unilaterale e svantaggioso; per esempio, con la cessione dei territori occupati illegalmente, e/o invasi, come la Crimea, e l’impedimento dell’accesso dell’Ucraina nella NATO. All’incontro hanno partecipato anche il presidente finlandese Stubb, la presidente della Commissione europea von der Leyen e il Segretario generale della NATO Rutte. Durante i colloqui, la discussione si è concentrata sulla proposta russa che prevede la fine delle ostilità in cambio della cessione di quattro regioni ucraine parzialmente occupate (Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson) e del riconoscimento del controllo sulla Crimea. Entrando nel dettaglio del summit:

  • La posizione di Trump.
    Il presidente americano ha espresso la volontà di proseguire i negoziati anche in assenza di un cessate il fuoco immediato, considerando tale mossa strategicamente svantaggiosa per una delle parti. Ha proposto, inoltre, di discutere di un possibile scambio di territori e di organizzare un vertice trilaterale con Putin e Zelenskyy per finalizzare un accordo in breve tempo;
     
  • La posizione europea.
    I leader europei si sono mossi di concerto per garantire che il pieno coinvolgimento di Kyiv fosse un prerequisito fondamentale. La presidente italiana Meloni (3) ha sottolineato la necessità di una “pace giusta” e ha proposto che la discussione sulle future garanzie di sicurezza si basasse su un patto di difesa collettiva, simile all’art. 5 della NATO. Il francese Macron, inoltre, ha ribadito l’importanza di un cessate il fuoco immediato.

A questo punto, enunciati gli avvenimenti, è necessaria e doverosa una precisazione. A proposito delle dichiarazioni del presidente Meloni all’apertura dell’incontro con il Presidente Trump, il Presidente Zelenskyy e i leader europei (18 agosto 2025), si ricorda che se è vero che secondo quanto stabilito dall’articolo 5 della NATO non è obbligatorio intervenire militarmente in aiuto del paese aggredito, è altresì vero che l'obbligo all'intervento in sé c'è, (a livello economico, logistico, in termini di materiale militare, di know-how, a seconda della esigenze). In altre parole, non esiste un obbligo di supporto militare, ma solo un obbligo di assistenza (fonte: sito ufficiale NATO), lasciando agli Stati sovrani la piena discrezionalità su come reagire. Infatti, quando per la prima volta l’art. 5 NATO venne invocato dagli USA dopo l’11 settembre 2001, gli Alleati “minori” come Ungheria, Polonia, Estonia, Lituania, Lettonia, fornirono un supporto soprattutto logistico e di assistenza medica (4).

Manifestanti pro-Ucraina alla Casa Bianca prima del vertice tra Trump e Zelenskyy, Wikimedia Commons, Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

In ogni caso, il vertice del 18 agosto 2025 non ha portato a decisioni concrete, ma i leader europei sono riusciti a evitare una discussione dettagliata su concessioni territoriali e hanno avuto l’assicurazione da Trump che non avrebbe negoziato un accordo senza il coinvolgimento diretto dell’Ucraina. Nonostante queste rassicurazioni, il vertice è stato criticato per la sua mancanza di concretezza. La profonda sfiducia nei confronti delle intenzioni di Trump rimane, alimentata dalla percezione di un’eccessiva vicinanza (anche personale) a Putin e dal timore che l’Alleanza transatlantica possa indebolirsi a causa delle azioni imprevedibili del presidente americano.

2.1 L’analisi: introduzione

L’incontro tra Putin e Trump è un evento storico in quanto, per la prima volta dall’invasione russa dell’Ucraina, Putin viene riconosciuto come un “pari” da un leader occidentale – e non uno qualsiasi, ma quello degli Stati Uniti. In effetti, il dittatore russo ed ex agente del KGB non ha perso occasione per adulare Trump, con espressioni quali  “con te alla Casa Bianca questa guerra non avrebbe mai avuto inizio” e “le elezioni del 2020? Le avevi stravinte, ma il voto per posta è stata una truffa”. Per procedere a un’analisi (del tutto personale) dell’accaduto, interpelleremo le principali teorie delle Relazioni internazionali (Realismo, Costruttivismo e Liberalismo), e scomoderemo le tre immagini di Waltz, utilizzando anche il two-level game.

I due testi di riferimento saranno Smith, S., Hadfield, A., Dunne, T., & Kitchen, N. (2024). Foreign Policy: Theories, Actors, Cases (Fourth Edition) e Grieco, Ikenberry, Mastanduno. (2017). Introduzione alle Relazioni internazionali - Domande fondamentali e prospettive contemporanee; ricordando sempre che nessun politologo (né qui si ha la pretesa di esserlo) farebbe mai previsioni sul futuro e che le analisi “in diretta” sono quasi sempre fallaci e semplicistiche. Non disponiamo di informazione completa né di capacità cognitivo-razionali illimitate.

2.2. L’analisi: le (principali) teorie delle Relazioni internazionali

In primo luogo, i realisti interpreterebbero gli eventi di questi giorni come una classica manifestazione della politica di potenza in un Sistema internazionale anarchico, nel quale ogni Stato agisce per massimizzare il proprio interesse definito in termini di potere e sicurezza. L’incontro in Alaska sarebbe un esempio di negoziato tra grandi potenze che cercano di definire le proprie sfere di influenza (5). Dal punto di vista realista, l’esclusione dell’Ucraina è logica: in un’arena internazionale dominata dagli Stati più forti, gli attori “minori” hanno un’autonomia limitata e il loro destino è spesso deciso al di sopra delle loro teste. La scelta di una base militare come luogo del summit non è casuale, ma simbolo della centralità della potenza militare nelle relazioni tra Stati. Il comportamento di Trump è perfettamente coerente con la logica realista offensiva (6) di Mearsheimer: lo stesso Mearsheimer che incolpa “l’espansione della NATO a Est” per l’invasione russa dell’Ucraina. Il suo obiettivo è concludere un accordo che sia vantaggioso per gli Stati Uniti, anche a costo di sacrificare gli interessi di un Alleato come l’Ucraina o di incrinare la coesione interna della NATO. La proposta dello scambio di territori è una mossa pragmatica che ignora le norme del diritto internazionale a favore di una soluzione basata sui rapporti di forza sul campo: in questo senso occorrerebbe chiedersi che cosa accadrebbe se la superpotenza americana mostrasse al mondo di non essere disposta a intervenire in difesa degli Alleati (pensiamo a Taiwan, ma non solo). Inoltre, la convocazione a Washington e la posizione compatta dei leader europei potrebbero essere lette come un tentativo di bilanciamento contro un potenziale accordo tra Stati Uniti e Russia che danneggerebbe la sicurezza europea – in linea con Waltz. L’insistenza sulla “pace giusta” e sul coinvolgimento di Kyiv non sarebbe tanto una questione di principi, quanto la necessità di evitare un precedente pericoloso che legittimerebbe l’aggressione russa e minaccerebbe la stabilità ai confini europei. La proposta di Meloni di un patto di difesa collettiva sarebbe un tentativo di rafforzare la deterrenza di fronte a un’America percepita come un Alleato meno affidabile. Anche qui, però, occorrerebbe chiedersi che cosa accadrebbe se, in caso di un disimpegno americano, le forze europee si dimostrassero inefficaci sul campo. Infine, il fatto che la Russia continui a bombardare l’Ucraina durante i negoziati è, per un realista, una strategia razionale: usare la forza militare per migliorare la propria posizione negoziale e costringere l’avversario a maggiori concessioni.

In secondo luogo, i costruttivisti si focalizzerebbero sul ruolo delle idee, delle identità e delle norme sociali nel plasmare il comportamento degli attori e nel definire i loro interessi. La profonda sfiducia nei confronti di Trump non sarebbe solo il risultato di un calcolo razionale dei suoi interessi, ma sarebbe costruita socialmente sulla base delle sue azioni e della sua retorica passate. La sua percepita vicinanza personale a Putin creerebbe una narrazione che lo identificherebbe come un leader inaffidabile per l’Alleanza occidentale, i cui valori e norme condivise egli “sembrerebbe” non rispettare. Gli interessi degli Stati Uniti sotto Trump verrebbero ridefiniti in modo diverso rispetto alle amministrazioni precedenti. Gli incontri di questi giorni dimostrerebbero come il concetto di “pace” sia contestato: da un lato, per la Russia e (forse) per Trump, essa sarebbe uno stato di assenza di guerra, raggiungibile anche con la cessione di territori e l’amnistia per l’invasione con il suo altissimo numero di vittime e distruzione; dall’altro, per i leader europei la “pace giusta” sarebbe una costruzione normativa che includerebbe principi di legalità internazionale e giustizia per la vittima dell’aggressione. Questa differenza non sarebbe oggettiva, ma dipenderebbe dalle idee e dai valori che ogni attore proietta. I leader europei non agirebbero solo per una logica di conseguenze (evitare un danno alla propria sicurezza), ma anche per una logica dell’appropriatezza: sarebbe appropriato che l’Ucraina sia al tavolo dei negoziati, che la sovranità territoriale sia rispettata e che un’alleanza si basi sulla fiducia reciproca. L’azione di Trump, al contrario, violerebbe queste norme consolidate della diplomazia occidentale, generando sconcerto e sfiducia. L’invito di Putin a Trump a Mosca sarebbe un atto simbolico potente. Servirebbe a costruire una narrazione di parità e di dialogo privilegiato tra due “grandi leader”, marginalizzando l’UE e l’Ucraina e tentando di legittimare la posizione della Russia sulla scena mondiale. La dichiarazione congiunta, anche se priva di progressi concreti, servirebbe a proiettare un’immagine di cooperazione che può influenzare le percezioni internazionali.

In terzo luogo, i liberali si concentrerebbero sul ruolo delle istituzioni, della cooperazione e delle norme internazionali, criticando gli aspetti che violino questi principi. L’incontro bilaterale tra Trump e Putin, escludendo Kyiv e gli Alleati europei, rappresenterebbe un passo indietro rispetto all’approccio multilaterale che i liberali ritengono fondamentale per la risoluzione pacifica delle controversie internazionali. La convocazione successiva a Washington sarebbe una “toppa”, ovvero un tentativo di ripristinare un minimo di consultazione istituzionale all’interno dell’Alleanza atlantica e con l’Unione europea. La proposta russa di annettere quattro regioni ucraine in cambio della pace sarebbe una palese violazione della sovranità territoriale e della Carta delle Nazioni Unite. Un liberale sottolineerebbe come un accordo basato su tali premesse minerebbe l’intero ordine internazionale basato sulle regole. L’insistenza europea per una “pace giusta” e il coinvolgimento di Zelenskyy rifletterebbe la norma liberale dell’autodeterminazione dei popoli. La lettera di Melania Trump, sebbene un gesto non ufficiale, evidenzierebbe l’importanza delle questioni umanitarie e dei diritti umani; temi che la prospettiva liberale considera primari nella politica internazionale (a differenza del Realismo che li considera secondari rispetto agli interessi di sicurezza). La presenza del Segretario generale della NATO e della presidente della Commissione europea al vertice di Washington mostrerebbe come, nonostante le tendenze unilaterali di leader come Trump, le istituzioni internazionali rimangano attori cruciali. La crisi di sfiducia nell’Alleanza transatlantica sarebbe, per un liberale, un grave danno, perché indebolirebbe la capacità delle democrazie liberali di agire collettivamente per difendere i propri valori (democratici) e interessi.

2.3. L’analisi: le tre immagini di Waltz

La prima immagine si concentra sugli individui:

  • Donald Trump.
    La figura di Trump domina lo scenario. Il suo approccio è caratterizzato da un’azione personalistica e imprevedibile, dai tratti sicuramente narcisistici. La convocazione di due vertici ravvicinati, di cui uno escludendo l’Alleato ucraino, rifletterebbe la preferenza per la diplomazia dei leader, basata sulle relazioni personali piuttosto che su canali istituzionali. Questo comportamento potrebbe essere analizzato attraverso le lenti della psicologia cognitiva. La sua ricerca di un accordo rapido e la proposta di un vertice trilaterale con se stesso come mediatore centrale potrebbero evidenziare un egocentric bias, ovvero la tendenza a sovrastimare il proprio ruolo e la propria capacità di influenzare gli eventi. Inoltre, la sua tendenza a decisioni rapide e intuitive, basate su relazioni personali (la “vicinanza a Putin”), suggerirebbe un predominio del “Sistema I” (intuitivo ed emotivo) sul “Sistema II” (ragionato e riflessivo) descritto da Kahneman. La sua imprevedibilità lo renderebbe un attore difficilmente inquadrabile in un modello di scelta puramente razionale;
     
  • Vladimir Putin.
    Il presidente russo agisce in modo calcolato e strategico. Mentre partecipa al dialogo, continua le operazioni militari, utilizzando la diplomazia come uno strumento all'interno di una strategia più ampia e non come un’alternativa alla forza. La sua proposta di cessioni territoriali in cambio della pace potrebbe essere un’applicazione dello sharp power: una combinazione di influenza coercitiva (militare) e manipolazione diplomatica per perforare e penetrare gli ambienti politici e informativi degli avversari. La sua decisione di estendere un invito a Trump a Mosca è una mossa di public diplomacy  mirata a proiettare un’immagine di dialogo e normalità, rafforza al contempo il legame personale con il presidente americano e tenta di incrinare il fronte occidentale;
     
  • Volodymyr Zelenskyy.
    La sua importanza come attore è fondamentale. La sua presenza a Washington, richiesta dagli europei, è il risultato della sua efficace diplomazia pubblica e della sua capacità di incarnare la Resistenza ucraina, trasformandosi in un simbolo globale. La sua partecipazione è vista come condizione necessaria per una “pace giusta”, e impedisce che il suo paese diventi oggetto passivo di un accordo tra grandi potenze. Questo, soprattutto nel rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli e del diritto internazionale.

La seconda immagine si concentra sugli Stati:

  • Stati Uniti.
    La politica estera americana appare come il prodotto di una presidenza che agisce in parziale discontinuità con l’establishment della sicurezza nazionale. L'approccio di Trump, definito “America First”, si manifesterebbe nel potenziale disallineamento con gli Alleati storici e nella tendenza a privilegiare accordi bilaterali con avversari. Questo creerebbe una tensione con il concetto di “stato di sicurezza nazionale”, un apparato istituzionale che, specialmente dopo l’11 settembre 2001, si è espanso per affrontare le minacce in modo coordinato e che ora vede la competizione tra grandi potenze come la sfida principale. L’azione di Trump, percepita come un indebolimento dell’Alleanza transatlantica, potrebbe essere un esempio di come la politica interna e lo stile di leadership (seconda e prima Immagine) possano entrare in conflitto con gli imperativi strategici percepiti dalle burocrazie permanenti. Dal punto di vista del Liberalismo, la politica di Trump è problematica: mina la “zona di pace liberale” non scendendo in guerra con altre democrazie, ma mostrando compiacenza verso un avversario autoritario e aggressività imprudente verso gli Alleati, due dei rischi della politica estera liberale;
     
  • Russia.
    Essendo uno Stato autoritario, la sua politica estera è strettamente legata alla stabilità del regime. La guerra e la diplomazia sono strumenti per consolidare il potere interno, proiettare la Russia come grande potenza e contestare il Sistema internazionale a guida occidentale. La sua strategia non è solo militare ma anche narrativa, volta a promuovere la costruzione di un nuovo modello di relazioni internazionali favorevole ai propri interessi;
     
  • Stati europei.
    Essi agirebbero come un blocco tendenzialmente coeso (ad eccezione di Ungheria e pochi altri), spinto da un interesse comune a non essere marginalizzati. La loro insistenza sul coinvolgimento di Kyiv e su una “pace giusta” rifletterebbe, come detto in precedenza, un’identità collettiva basata su norme e valori condivisi, come la sovranità e l’integrità territoriale. Secondo l'approccio costruttivista, gli Stati europei opererebbero secondo una “logica di appropriatezza”, il loro comportamento sarebbe cioè guidato da ciò che ritengono giusto e appropriato per la loro identità di democrazie liberali all’interno di una comunità di valori (l’UE e la NATO). La proposta italiana di un patto di difesa collettiva sarebbe un tentativo di istituzionalizzare questa identità condivisa in una nuova pratica di sicurezza. Infine, l’Ucraina cercherebbe negli Alleati europei la forza per bilanciare la potenza degli avversari.

La terza immagine si concentra sul Sistema internazionale:

  • L’anarchia e l’equilibrio di potere.
    Gli avvenimenti di questi giorni sarebbero l’illustrazione perfetta del Realismo. In un sistema anarchico, gli Stati agirebbero per garantire la propria sopravvivenza e massimizzare il proprio potere. La Russia starebbe tentando di alterare l’equilibrio di potere in Europa a proprio vantaggio. Gli Stati dell’UE e il Regno Unito, attraverso il loro sostegno all’Ucraina e le dichiarazioni di Starmer, starebbero attuando una strategia di bilanciamento contro la minaccia russa. La preoccupazione principale è che le azioni di Trump possano rompere questo equilibrio, spingendo verso un accordo che di fatto premi l’aggressione russa, indebolendo la credibilità della deterrenza occidentale. Si tratta di una classica applicazione della balance of threat theory di Walt (7), dove gli Stati si alleano non solo contro il potere aggregato, ma contro la percezione di intenzioni aggressive;
     
  • Il ruolo delle alleanze.
    L’Alleanza atlantica è l'architrave della sicurezza europea. La presenza del Segretario generale della NATO al vertice di Washington e la proposta di un patto simile all’art. 5 di Meloni ne sottolineerebbero la centralità. Tuttavia, la sfiducia nei confronti di Trump evidenzierebbe la fragilità delle alleanze quando la volontà politica del membro egemone vacilla. Dal punto di vista costruttivista, la NATO non sarebbe solo un’alleanza militare, ma un “fatto sociale” basato su un’identità e una conoscenza condivisa. Le azioni di Trump minaccerebbero di decostruire questa realtà condivisa, mettendo in discussione la promessa su cui si fonda l’Alleanza. L’Alleanza opera internamente in una cultura kantiana di amicizia, ma si confronta con la Russia in una cultura hobbesiana di inimicizia. La politica di Trump rischia di confondere questi confini;
     
  • La nuova competizione tra blocchi.
    Lo scenario evoca una dinamica da Guerra fredda, con vertici tra i leader delle due principali potenze che decidono le sorti di altri paesi. Non a caso la scelta di Anchorage come luogo d’incontro. La profonda divisione tra le democrazie occidentali e la Russia (potenzialmente sostenuta dalla Cina) rifletterebbe quella linea netta tra autoritarismi e democrazie che il presidente Biden aveva articolato, prefigurando una competizione sistemica per l’egemonia globale.

2.4. L’analisi: il two-level game (8)

Quando Putnam (1988) descrisse la politica estera come un gioco su due livelli, intendeva evidenziare come la politica estera fosse lo specchio degli Stati (e dei leader e gruppi) che la attuano. Secondo questo approccio, i negoziatori agirebbero simultaneamente su due “scacchiere”: il livello I, ovvero il tavolo dei negoziati internazionali, dove si cerca di raggiungere un accordo con le controparti estere; il livello II, ovvero il contesto politico interno, dove si deve ottenere la “ratifica” dell’accordo da parte di partiti, parlamenti, gruppi di interesse, opinione pubblica ed élites. I recenti summit sulla crisi ucraina non sono stati solo un dialogo tra Stati, quindi, ma un complesso gioco a due livelli in cui ogni leader agiva simultaneamente sul fronte diplomatico internazionale e su quello della politica interna. Il presidente Trump, spinto dalla necessità di offrire una vittoria rapida e plateale al suo elettorato, è probabile che abbia cercato un accordo veloce, anche a costo di sacrificare gli interessi ucraini, dimostrando che la sua vera partita si giocava in casa. Allo stesso modo, Putin avrebbe sfruttato i propri rigidi vincoli interni (quali l’impossibilità di apparire debole di fronte a un popolo estremamente nazionalista) come leva per non fare concessioni al tavolo internazionale.

Di fronte al rischio di un’intesa siglata sopra le loro teste, i leader europei hanno reagito tendenzialmente compatti, imponendo il coinvolgimento di Kyiv come condizione non negoziabile. In questo modo, avrebbero dimostrato che qualsiasi accordo, per essere valido, doveva essere “ratificabile” non solo per l’elettorato americano, ma anche per i parlamenti e le opinioni pubbliche europee (al plurale, poiché le occasioni in cui l’opinione pubblica europea è unitaria sono rare; accade più spesso che ci siano diverse opinioni pubbliche al livello statale). Meloni avrebbe agito, da una parte, cercando di coltivare una relazione privilegiata con Trump (come da anni si vanta di fare) e di essere accettata come autorevole dagli altri leader europei; dall’altro, invece, cercando di non prendere accordi sconvenienti per la sua maggioranza di governi in Italia, primo su tutti Salvini. La vicenda illustrerebbe perfettamente come le grandi decisioni di politica estera siano inestricabilmente legate alle ambizioni e ai vincoli che i leader affrontano all’interno del proprio paese.

Il presidente Donald J. Trump accoglie il presidente russo Vladimir Putin alla base congiunta Elmendorf-Richardson, Anchorage, Alaska, 15 agosto 2025 (foto del Dipartimento della Difesa di Benjamin Applebaum), Wikimedia Commons

3. Conclusione

Gli eventi intercorsi tra il 16 e il 18 agosto 2025 cristallizzano una profonda tensione al cuore del Sistema internazionale. L’analisi condotta attraverso le lenti del Realismo, del Costruttivismo e del Liberalismo non offre una spiegazione univoca, ma piuttosto un quadro complesso e stratificato in cui diverse logiche d'azione si sovrappongono e si scontrano. Da un lato, emerge il pragmatismo realista di Trump e Putin, orientato a una risoluzione del conflitto basata sui rapporti di forza materiali e sulla negoziazione tra grandi potenze, in cui gli Stati minori sono relegati al ruolo di pedine su una scacchiera più ampia. Dall’altro, si manifesta la reazione degli attori europei, il cui agire appare informato da una logica liberale e costruttivista, tesa a salvaguardare l’architettura normativa e istituzionale del Sistema internazionale, i principi di sovranità e la centralità di un approccio multilaterale.

L’applicazione delle tre immagini di Waltz e del modello di Putnam arricchisce ulteriormente questa lettura, evidenziando come l’esito della crisi non sia determinato unicamente dalle dinamiche sistemiche. La personalità e lo stile di leadership dei singoli attori, le identità politiche interne degli Stati e i vincoli imposti dalle rispettive opinioni pubbliche (il livello II di Putnam) si rivelano variabili cruciali. La politica estera statunitense, sotto la presidenza Trump, appare come il prodotto di una visione personalistica che sfida le tradizionali strutture dello Stato, mentre la coesione europea si configura come un tentativo di bilanciamento non solo contro la Russia, ma anche contro l’imprevedibilità dell’Alleato americano.

In definitiva, i summit di Anchorage e Washington si concludono senza un esito risolutivo, ma lasciano aperti interrogativi fondamentali per il futuro della stabilità del Sistema internazionale. La questione centrale non è più soltanto come porre fine all’invasione russa dell’Ucraina, ma quale tipo di pace sia possibile e, soprattutto, quale precedente essa costituirà nei decenni a venire. Prevarrà una pace negoziata sulle rovine del diritto internazionale, dettata da una logica transazionale tra potenze, oppure prevarrà una “pace giusta” che, pur nel compromesso, riaffermi la validità delle norme e delle istituzioni che hanno governato le relazioni internazionali nel secondo dopoguerra? La profonda sfiducia generata dalle azioni del presidente statunitense non incrina soltanto la coesione dell’Alleanza atlantica, ma espone la fragilità di un sistema il cui funzionamento dipende tanto dalla distribuzione del potere quanto dalla condivisione di principi e aspettative. I giorni analizzati, pertanto, non rappresentano unicamente un capitolo della crisi ucraina, ma un potenziale punto di svolta per l’intero assetto internazionale.

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