Tra il dolore e la propaganda: Teheran dopo i bombardamenti israeliani

Estero

di Riccardo Isernia,

Lo scorso giugno centinaia di civili iraniani sono morti negli attacchi condotti dall’esercito israeliano contro la capitale Teheran, una metropoli di 10 milioni di abitanti. Sebbene gli israeliani abbiano bersagliato anche altre aree del Paese, sono stati i raid sulla capitale a determinare un maggiore impatto sulla popolazione, dando inizio a una nuova fase della già fragile e instabile relazione con il governo di Tel Aviv (1).

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A tre mesi dalla fine della guerra di 12 giorni tra Israele e Iran, il New York Times ha inviato a Teheran i reporter Declan Walsh e Nanna Heitmann per raccontare le conseguenze degli attacchi israeliani sulla società iraniana.

L’obiettivo dichiarato di Israele era sfruttare il momento di debolezza dei principali proxy iraniani (organizzazioni che agiscono per conto o su spinta del regime), come Hamas ed Hezbollah, per tentare di paralizzare il programma nucleare di Teheran e indebolire la leadership del regime nella regione. I raid israeliani hanno quindi preso di mira figure chiave sia dell’establishment politico-militare sia del progetto nucleare iraniano (2).

Tuttavia le bombe israeliane hanno colpito anche infrastrutture civili, come un’importante prigione di Teheran, una stazione televisiva, e diversi complessi residenziali. Alcuni video mostrano inoltre diverse esplosioni travolgere molti automobilisti su parte delle strade più trafficate della capitale (3).

Secondo il ministero della salute iraniano, le morti civili sarebbero circa 700, mentre le vittime legate agli apparati militari e nucleari sarebbero circa 400. Anche un’analisi indipendente portata avanti dalla Human Rights Activists News Agency ha riportato cifre simili, contando 436 vittime civili, 435 vittime militari, e 319 vittime non identificate. In Israele invece i civili uccisi dai contrattacchi iraniani sarebbero 31, secondo il ministero degli esteri israeliano (4).

Foto: Mizan News Agency, Wikimedia Commons

I residenti di Teheran sentiti dal Times raccontano che la capitale iraniana non aveva mai affrontato attacchi di questa portata. La popolazione è ancora sotto shock e teme che il cessate il fuoco stabilito lo scorso 25 giugno non reggerà a lungo.

Per anni Israele e Iran avevano preferito farsi la guerra in modo indiretto e a bassa intensità. Teheran attaccava Israele attraverso i suoi alleati regionali, mentre Tel Aviv colpiva il programma nucleare iraniano attraverso sabotaggi e omicidi mirati. Lo scorso giugno però Israele ha deciso di cambiare strategia in favore di operazioni militari di maggiore intensità che hanno moltiplicato le vittime civili (5).

Molti iraniani sono morti soltanto perché abitavano nello stesso complesso di uno scienziato nucleare o di un generale dell’esercito. Altri sono stati invece colpiti proprio in raid diretti contro infrastrutture civili, attacchi volti a destabilizzare il governo di Teheran (6).

Il più sanguinoso di questi raid è stato il lungo bombardamento della prigione di Evin, che secondo il ministero della salute iraniano avrebbe provocato 80 morti tra detenuti, assistenti sociali e bambini. Se un funzionario israeliano ha giustificato l’attacco come un duro colpo al simbolo dell’oppressione attuata dal regime iraniano, organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International l’hanno definito un probabile crimine di guerra, chiedendo di aprire delle indagini sulla vicenda (7).

La potenza dei raid israeliani ha messo in luce la debolezza e l’isolamento del regime iraniano, ormai incapace di proteggere i suoi confini e i suoi cittadini. Tuttavia, come sottolineato da Suzanne Maloney su Foreign Affairs, dare per finito il governo degli Ayatollah sarebbe un errore.  

Il dolore causato dagli attacchi israeliani è stato infatti sfruttato dai leader iraniani per alimentare il nazionalismo interno. Le commemorazioni ufficiali per le vittime sono state trasformate in manifestazioni di propaganda anti-israeliana, fomentando i sentimenti di vendetta verso Tel Aviv (8).

E la propaganda del regime ha avuto i suoi effetti. Diversi giovani intervistati dal Times si sono infatti detti pronti a dare tutto per il loro Stato e per vendicare le vittime dei raid israeliani. Tra questi c’è chi accusa anche gli Stati Uniti, visti come uno storico protettore di Israele e coinvolti nell’ultima guerra attraverso il bombardamento di importanti siti nucleari iraniani nel sud del paese. Altri invece limitano la loro accusa alla sola amministrazione Trump, ritenuta colpevole di aver stracciato l’accordo sul nucleare iraniano sottoscritto nel 2018.

Non mancano però posizioni ambivalenti. Molti iraniani esprimono sì rabbia verso Israele ma anche un senso di frustrazione verso il proprio governo. Il malcontento per le politiche repressive attuate dal regime resta infatti una variabile non trascurabile (9).

In generale pare che molti iraniani non si sentano più al sicuro a Teheran, e c’è chi progetta di lasciare il paese.

Secondo il Times alcuni leader israeliani speravano che la guerra potesse contribuire a innescare una rivolta popolare capace di rovesciare il regime. Ma queste speranze si sono rivelate erronee (10).

Invece di ribellarsi contro i propri leader, gli iraniani sembrano più che altro interessati a tornare a una sorta di normalità, nonostante una nuova e diffusa insicurezza. A Teheran si è infatti consapevoli della debolezza delle difese aeree, e la repressione interna attuata dal regime, che ha portato ad oggi all’esecuzione di dieci persone accusate di spionaggio, divide la popolazione tra chi invoca vendetta nei confronti di Israele, e chi resta ostile al regime, accusato di non garantire la pace, la sicurezza, e i diritti del popolo iraniano (11).

L’assenza di un movimento politico o di un leader carismatico capace di unire un’opposizione che rimane oggi disorganizzata e divisa, permette al regime di mantenere apparentemente il potere senza rivali (12).

Anche l’obiettivo principale dell’operazione israeliana non può dirsi raggiunto. L’infrastruttura nucleare iraniana è stata danneggiata ma non distrutta. Senza contare che questa guerra potrebbe spingere gli iraniani a continuare sulla strada dell’arricchimento dell’uranio, nella convinzione che possedere un arsenale nucleare sia l’unica forma di deterrenza in grado di proteggere il regime dagli attacchi esterni, da un lato, e rafforzare i sostenitori interni al regime, dall’altro. L’acquisizione dell’arma nucleare, infatti, modificherebbe gli equilibri regionali e segnerebbe un cambiamento di status per Teheran.

Tuttavia su questo tema sono stati fatti dei progressi, grazie alla firma di un accordo tra l’Iran e l’International Atomic Energy Agency (IAEA), volto a rilanciare la cooperazione e la ripresa delle ispezioni nei siti nucleari iraniani.

Il ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi ha però avvertito, come riportato da Associated Press, che l’intesa sarà considerata nulla in caso di nuovi atti ostili, come il ripristino delle sanzioni ONU. L’Iran aveva infatti interrotto ogni collaborazione con l’IAEA subito dopo gli attacchi israeliani, e solo lo sforzo diplomatico dell’Egitto ha convinto il governo di Teheran a riaprire un dialogo con l’agenzia internazionale (13).

La situazione rimane in evoluzione, e ulteriori sforzi diplomatici saranno decisivi per stabilire il grado di controllo sul nucleare iraniano. Questo perché Francia, Germania e Regno Unito si sono detti pronti a ripristinare le sanzioni ONU se Teheran non riprenderà negoziati diretti con gli USA e non fornirà un resoconto dettagliato sul proprio uranio arricchito (14).

Dal canto suo l’Iran rimane diffidente e scettico nel riaprire un dialogo con Washington, soprattutto dopo che Trump ha interrotto i precedenti negoziati prima supportando l’azione militare israeliana, e poi partecipando a sua volta nei bombardamenti dei siti nucleari iraniani (15).

Sarà quindi cruciale garantirsi la fiducia del regime di Teheran affinché l’Iran decida di sedersi nuovamente al tavolo delle trattative. In quest’ottica, per analisti come Jennifer Kavanagh e Rosemary Kelanic, è fondamentale abbandonare la strategia aggressiva della pressione militare a favore di una politica diplomatica capace di fornire garanzie concrete a Teheran.

Per concludere, l’operazione israeliana si è rivelata sì una vittoria sul piano tattico ma non sul piano strategico. Il regime iraniano resta in piedi ed è ora più ostile e diffidente che mai, con l’ombra della minaccia nucleare ancora ben presente (16).

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