Le due grandi contraddizioni della strategia commerciale di Donald Trump

Economia

di Gabriele Verdi,

Il Presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump ha fatto della riduzione del deficit commerciale una delle sue principali bandiere politiche. "They're ripping us off", ci stanno fregando, ha dichiarato il 2 Aprile 2025, durante il ‘Liberation Day’, il giorno dell’annuncio dei nuovi dazi doganali per la maggior parte dei partner commerciali degli Stati Uniti. È facile comprendere come per il Presidente americano il deficit commerciale rappresenti una sconfitta per gli Stati Uniti, mentre gli altri paesi ne traggono un vantaggio indebito.

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A seguito del ‘Liberation Day’, e del successivo rinvio della loro entrata in vigore al fine di consentire trattative con questi ultimi, l’amministrazione americana ha annunciato di aver raggiunto delle intese preliminari (perché di accordi finalizzati, ad oggi, non ve n'è traccia, e richiederanno probabilmente molto tempo) con alcune delle maggiori economie del mondo. In particolare, Corea del Sud, Giappone, ed Unione Europea.

Queste tre economie, rispettivamente il sesto, il quinto e il primo partner commerciale degli Stati Uniti, vedranno imposto un dazio del 15% sui propri beni esportati. L’aspetto più interessante è probabilmente legato al fatto che Donald Trump, per concedere questo ‘sconto’ sulle nuove tariffe doganali, ha richiesto (o preteso?) massicci nuovi investimenti negli Stati Uniti.

Dunque, la strategia di Donald Trump sembra essere la seguente: imporre nuovi dazi sulle importazioni per riportare la manifattura in America, ottenere una nuova fonte di entrata per l’erario federale e ridurre il deficit commerciale, e ottenere nuovi investimenti dai partner commerciali contro una riduzione delle nuove tariffe. Per capire perché questa strategia non torna, è necessario chiedersi: quali sono le funzioni dei dazi? Ed è possibile pretendere immensi investimenti senza accettare maggiori importazioni?

Le ‘tre R’ delle politiche commerciali: revenue, restriction, reciprocity

Secondo l’economista americano Douglas Irwin, la politica commerciale degli Stati Uniti si può dividere in tre ere distinte, a cui corrispondono altrettante funzionalità dei dazi. La prima è quella di aumentare il gettito fiscale (revenue) per il governo federale. La seconda è quella di limitare le importazioni (restriction) al fine di proteggere l’industria domestica. La terza è quella di raggiungere la reciprocità di trattamento (reciprocity) attraverso accordi che riducono le barriere commerciali.

Donald Trump, nelle proprie dichiarazioni, ha dimostrato di voler utilizzare i dazi per tutte e tre queste finalità. Ha più volte suggerito che le entrate derivanti dalle nuove tariffe doganali potrebbero, tra le altre, sostituire le imposte sul reddito e contribuire a ridurre il debito federale. La sua amministrazione sostiene che i dazi siano lo strumento con cui proteggere l'industria manifatturiera americana e rilocalizzare posti di lavoro negli Stati Uniti. Infine, ha sostenuto che i dazi siano soltanto un mezzo per creare una condizione di parità tra produttori americani ed esteri: "Reciprocal: that means they do it to us and we do it to them".

Tuttavia, questi tre obiettivi non possono essere soddisfatti contemporaneamente nel medio-lungo termine. Se Donald Trump intende utilizzare i dazi come leva negoziale, allora non possono essere utilizzati per garantire protezione all’industria domestica, e tantomeno possono garantire un flusso costante di entrate per il tesoro federale. Se invece intende utilizzarle per ottenere gettito fiscale, le tariffe non possono essere troppo alte, poiché in questo caso ridurrebbero i volumi di importazione da cui il gettito dipende. Oppure, se avesse successo nel riportare una parte considerevole della produzione manifatturiera all’interno degli Stati Uniti, allora non vi sarebbe necessità di importare quei beni e, dunque, verrebbero meno le entrate da dazi, in quanto non ci sarebbero più beni da tassare all’ingresso. Questi esempi intuitivi illustrano semplicemente perché gli obiettivi dell’amministrazione americana risultano essere incoerenti tra loro.

Meno importazioni e più investimenti? Trump e la sfida alla bilancia dei pagamenti

Come brevemente anticipato, il Presidente americano ha concluso nelle ultime settimane accordi commerciali con diversi paesi, tra cui (in ordine cronologico) Corea del Sud, Giappone, ed Unione Europea. Questi vedranno applicare alle proprie merci in ingresso negli Stati Uniti una tariffa doganale del 15% (rispetto a quelle annunciate il 2 Aprile rispettivamente del 25%, 24% e 20%), che costituiscono un notevole aumento rispetto a quelle applicate finora. Si consideri, infatti, che la media semplice delle tariffe doganali applicate dagli USA alle merci in ingresso nel 2024, ai sensi della clausola della Nazione più favorita, è stata pari al 3,5%, mentre quella pesata pari al 1,4% (fonte WTO).

Secondo i primi comunicati pubblici, inoltre, Giappone ed Unione Europea aumenteranno i propri acquisti di beni e prodotti statunitensi. Il Giappone si è impegnato ad aumentare le importazioni di riso del 75%, ad acquistare beni-, tra cui prodotti agricoli, carburante sostenibile e aerei commerciali, per un valore di 8 miliardi di dollari, nonché ulteriori miliardi di dollari all'anno per l'acquisto di attrezzature militari statunitensi. Invece, l’Unione Europea si è impegnata ad acquistare 750 miliardi di dollari di prodotti energetici, e significative quantità di attrezzature militari.

Infine, gli stessi tre paesi si impegneranno ad aumentare i propri investimenti diretti negli Stati Uniti. In particolare, tali investimenti dovrebbero ammontare a 350 miliardi di dollari dalla Corea del Sud, 550 miliardi di dollari dal Giappone, e 600 miliardi di dollari dall’Unione Europea. Importi che dovranno essere impegnati entro la fine del mandato di Donald Trump alla Casa Bianca. Importi che i governi interessati hanno già specificato non saranno sostenuti direttamente dalle proprie finanze pubbliche, ma da imprese interessate a investire negli Stati Uniti, mentre l’intervento pubblico sarà limitato (almeno nelle intenzioni iniziali) a garantire garanzie pubbliche alle imprese private.

Dunque, se tali accordi dovessero effettivamente riversare pienamente i propri effetti nell’economia, due sono le principali conseguenze che dovrebbero verificarsi, a parità di altre condizioni. Da una parte, maggiori acquisti provenienti dal resto del mondo dovrebbero sostenere le esportazioni americane, e dunque portare a una riduzione del deficit commerciale americano. Dall’altra, i maggiori investimenti dovrebbero portare a un incremento nei flussi di capitali finanziari diretti verso gli Stati Uniti. Tuttavia, questi due risultati non possono essere raggiunti contemporaneamente, e anzi si escludono vicendevolmente.

Per capire il perché, è necessario comprendere i meccanismi di base del commercio internazionale, sintetizzato dalla bilancia dei pagamenti, composta da tre componenti: il conto corrente, il conto finanziario, e il conto capitale. Il conto corrente registra i flussi lordi relativi agli scambi di beni, servizi e redditi tra residenti e non residenti di un'economia. Parte del conto corrente è la bilancia commerciale, ovvero il saldo tra esportazioni e importazioni di merci. Il conto finanziario registra le transazioni tra residenti e non residenti negli Stati Uniti relative a investimenti diretti, investimenti di portafoglio, altri investimenti (ad esempio depositi e prestiti), riserve e derivati finanziari diversi dalle riserve. Il conto capitale, di cui evitiamo in questa sede la definizione, rappresenta una componente marginale in ogni economia avanzata. L’identità fondamentale della bilancia dei pagamenti richiede che la somma dei saldi di conto corrente, conto finanziario e conto capitale debba essere uguale a zero. Assumendo che il saldo di conto capitale sia pari a zero (un’ipotesi non distante dalla realtà nel caso dell’economia americana), ciò si traduce nel dire che qualsiasi surplus del conto corrente sarà bilanciato da un deficit del conto finanziario di pari entità, oppure che un deficit del conto corrente sarà bilanciato da un corrispondente surplus del conto finanziario.

La veridicità di questa identità può essere verificata nella figura sottostante, che riporta i saldi dei tre conti, più la discrepanza statistica. Si può notare come il saldo di conto capitale sia praticamente invisibile, mentre i saldi di conto corrente e conto finanziario siano praticamente specchiati rispetto all’asse orizzontale. Nel 2024, il deficit di conto corrente americano è stato pari a 1.185 miliardi di dollari, ovvero il 3,9% del PIL. In particolare, il deficit della bilancia commerciale dei beni è pari a 1.215 miliardi di dollari, ovvero gli Stati Uniti hanno importato 1.215 miliardi di dollari di beni in più rispetto a quanto hanno esportato. Sempre nel 2024, il saldo di conto finanziario è stato pari a 1.129 miliardi di dollari, ovvero gli Stati Uniti hanno preso in prestito dal resto del mondo 1.129 miliardi di dollari in più di quanto hanno prestato al resto del mondo.

Fonte: Grafico elaborato da Gabriele Verdi, International Transactions Accounts, Bureau of Economic Analysis

Dunque, un miglioramento nel conto finanziario è accompagnato da un deterioramento del conto corrente e viceversa. E la ragione è, cercando di semplificare, la seguente: le economie che risparmiano più di quanto investono internamente avranno un surplus finanziario netto verso l’estero, e dunque esporteranno più beni e servizi di quelli che importeranno, accumulando crediti verso l’estero. Al contrario invece, le economie che investono più di quanto risparmiano internamente (come gli Stati Uniti) avranno un deficit finanziario netto verso l’estero, e di conseguenza importeranno più beni di quelli che esporteranno, permettendo in tal modo gli investimenti desiderati senza contrarre il consumo interno, ma accumulando al contempo debiti verso l’estero.

Date queste premesse, dovrebbe risultare chiaro come le promesse di Donald Trump risultino intrinsecamente contraddittorie tra loro. Da un lato, una riduzione del deficit commerciale (ottenuta attraverso dazi più alti) dovrebbe portare a una contrazione del deficit di conto corrente, e dunque a una riduzione del surplus di conto finanziario a causa del minore afflusso di capitali esteri. Dall’altro lato, le richieste di maggiori investimenti negli Stati Uniti dovrebbero portare a un incremento del surplus di conto finanziario (attraverso l’aumento degli investimenti esteri diretti), e dunque a un ulteriore allargamento del deficit di conto corrente.

In sintesi, gli obiettivi dichiarati dal Presidente americano, meno importazioni e più investimenti esteri, non sono solo difficili da conciliare: sono contabilmente incompatibili.

Conclusione

In questo articolo, abbiamo evitato di dare giudizi di merito sul fatto che i disavanzi di bilancia commerciali siano positivi o negativi, e soprattutto se è un problema oppure no che gli Stati Uniti ne registrino continuativamente da quasi cinquant'anni.

Il tentativo è stato invece quello di mostrare un punto più semplice: che le idee del Presidente americano in materia di dazi e commercio internazionale sono contraddittorie, e in certi casi, lo si può dire con un pizzico di causticità, del tutto scollegate dalla realtà economica e della contabilità internazionale.

Ed è probabilmente questo il punto su cui dovremmo concentrarci, perché è il punto di cui l’amministrazione americana sembra non accorgersi, o finge di non accorgersi, e che è quasi del tutto assente nel dibattito pubblico e nei mass media. Due eccezioni degne di nota sono l’articolo di Phil Gramm e Donald J. Boudreaux sul Wall Street Journal, “Trump’s Myth of the Trade Deficit”, e l’analisi di Benn Steil per il Council on Foreign Relations, “Trump’s Japanese and EU Investment Boasts Contradict His Claims of a Trade Deficit Emergency”. 

Ma questa disattenzione ha un costo, come noi Italiani dovremmo ben sapere. Perché se chi guida un’economia ignora i vincoli della contabilità nazionale e internazionale, può promettere tutto, almeno fino a quando la realtà dei numeri torna a bussare alla porta.  E se nessuno fa notare che quei conti non possono quadrare, rischiamo di inseguire illusioni, e poi stupirci del perché la realtà non segua lo slogan.

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