La Fed, i dazi e l'economia mondiale

Ex-KathedraEconomia

di Emilio Rossi,

Il discorso tenuto dal presidente della Federal Reserve Jerome Powell a Jackson Hole il 22 agosto ha assunto un approccio più dialettico  rispetto alle precedenti dichiarazioni in materia di tassi di interesse e politica monetaria.

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Fed e politica monetaria

 Nel suo attesissimo discorso, Powell ha indicato per l'economia statunitense uno spostamento dell'equilibrio dei rischi tra inflazione e occupazione, più evidente nei dati recenti che indicano un potenziale indebolimento del mercato del lavoro. Il Presidente della FED ha affermato che il cambiamento dei rischi “potrebbe” giustificare un adeguamento della politica monetaria nei prossimi mesi. Le osservazioni di Powell rendono più probabili ulteriori tagli nel 2025 rispetto a quanto previsto, ovvero da uno (come previsto dai mercati prima di Jackson Hole) a due o forse anche tre. Quando la Fed apre la porta a un taglio dei tassi normalmente si tratta di un cambio di visione ma questo approccio più accomodante non dovrebbe essere considerato come un cambiamento a 180 gradi nella direzione della politica della Fed.

Powell ha sottolineato che questo adeguamento della policy monetaria è reso possibile dalla sua attuale stance restrittiva, sulla base del confronto tra i tassi Fed attuali e le stime della Fed stessa sul tasso di interesse nominale neutro degli Stati Uniti (cioè il tasso coerente con un orientamento di politica monetaria neutro). Di conseguenza, la Fed punterà a normalizzare i tassi piuttosto che diventare accomodante. Ciò suggerisce che il prossimo taglio dei tassi non è necessariamente l'inizio di una serie - Powell ha sottolineato che la politica monetaria non segue un percorso prestabilito e continuerà a basarsi sui dati in arrivo e sull'equilibrio dei rischi.

In altre parole, la Fed si sta leggermente scostando dalla comunicazione passata, quando la banca centrale si concentrava sul suo obiettivo principale, che comunque rimane l'inflazione. Legare i tagli dei tassi alla crescita dell'occupazione non sarebbe l'approccio migliore, considerato peraltro che la recente debolezza dei dati sul lavoro riflette i licenziamenti federali e l'aumento dell'incertezza politica ad aprile, che ha depresso il tasso di assunzioni, fattori sui quali la politica monetaria non ha strumenti o impatto. Powell ha osservato che il mercato del lavoro è in equilibrio e che il suo recente indebolimento non segnala un rallentamento significativo, consentendo alla Fed di “procedere con cautela”.

A differenza di altri funzionari della Fed, Powell si è mostrato più attento al lato occupazionale del mandato a causa del fatto che l'aumento del livello dei prezzi legato ai dazi è da considerare “una tantum” ed è accompagnato da aspettative stabili di inflazione a lungo termine. Powell sembra quindi preparare il terreno per un approccio graduale alla normalizzazione dei tassi di interesse, forse un taglio ogni due riunioni quest'anno, anche se in funzione dei nuovi dati e dello sviluppo delle aspettative di inflazione.


Indipendenza della Fed e centralità del dollaro

Il Federal Open Market Committee (FOMC), l'istituzione che definisce la politica monetaria statunitense per raggiungere il mandato statutario della Federal Reserve di massima occupazione e stabilità dei prezzi, ha da settembre un altro membro favorevole ai tagli dei tassi: Stephen Miran, scelto dal presidente Trump per ricoprire il resto del mandato dell'ex governatore della Fed Adriana Kugler. Nel frattempo, lo status del governatore della Fed Lisa Cook rimane incerto e potrebbe non essere chiarito per molte settimane. In precedenza, Trump aveva dichiarato di voler licenziare Cook per giusta causa, sulla base delle accuse secondo cui avrebbe rilasciato false dichiarazioni sulle richieste di mutuo prima di diventare governatore della Fed. Cook ha intentato una causa, chiedendo ai tribunali di consentirle di rimanere in carica come governatore mentre il caso, che sarà probabilmente deciso dalla Corte Suprema, segue il suo iter giudiziario. Dopo la nomina di Miran, l’eventuale nomina di un altro membro FOMC di nomina del Presidente Trump sposterebbe l’equilibrio delle posizioni riguardanti la politica monetaria nella direzione espansiva.

Finora, la reazione dei mercati finanziari ai tentativi di Trump di esercitare una maggiore influenza sulla Fed è stata piuttosto contenuta. Tuttavia, il recente annuncio della volontà di rimuovere il governatore Cook da parte di Trump ha probabilmente contribuito all’aumento della ripidità della curva dei rendimenti. Una Fed meno indipendente favorirebbe tagli dei tassi più aggressivi, che si rifletterebbero in tassi più bassi nella parte iniziale della curva dei rendimenti dei titoli del Tesoro, a scapito di un aumento dell'inflazione e delle aspettative di inflazione, che si rifletterebbero in tassi più elevati nella parte finale della curva.

È tuttavia improbabile e quantomeno prematuro inferire che il recente deprezzamento del dollaro statunitense e la più ampia vendita di asset statunitensi (che ha portato a tassi più elevati sui titoli obbligazionari statunitensi a lungo termine) derivino da una perdita di fiducia nello status del dollaro come valuta di riserva globale. La vendita del dollaro statunitense e dei mercati del reddito fisso è stata invece determinata in misura maggiore da tre sviluppi specifici dello shock tariffario. In primo luogo, l'impatto sulla domanda derivante dall'imposizione di dazi all'importazione è maggiore negli Stati Uniti – innescato da un iniziale aumento dell'inflazione – che nel resto del mondo, dove lo shock della domanda è più limitato fintanto che le eventuali misure di ritorsione sono mantenute a un livello “ragionevole” o, meglio ancora, non vengono adottate affatto. In secondo luogo, gli investitori internazionali erano sovraesposti alle attività statunitensi e questo episodio ha provocato un certo riequilibrio. In terzo luogo, l'acuta incertezza politica ha contribuito al calo a breve termine del dollaro.

Lo status di valuta di riserva del dollaro potrebbe eventualmente essere compromesso se l'attuale pressione ciclica sugli asset statunitensi si trasformasse in una pressione strutturale a più lungo termine. Per raggiungere tale stadio, il protezionismo commerciale dovrebbe essere esacerbato e accompagnato da altri drastici cambiamenti politici. Nello specifico, gli Stati Uniti dovrebbero adottare misure per limitare direttamente i flussi di capitale, basandosi sulla Sezione 899 della legge di bilancio del presidente Donald Trump (la “One Big Beautiful Bill”), e lasciare che la dinamica del debito pubblico statunitense diventi preoccupante al limite della insostenibilità e non sia accompagnata da un piano di consolidamento credibile per i prossimi anni. Sebbene l'amministrazione Trump abbia avanzato misure potenzialmente in questa direzione, c'è ancora molta strada da fare prima di vedere lo status di valuta di riserva del dollaro significativamente compromesso.


Impatto dazi su inflazione

Nell'attuale contesto economico, inflazione e aspettative di inflazione negli Stati Uniti dipendono in larga misura dall'impatto dei dazi sui beni importati. Finora, tale impatto è stato inferiore a quanto previsto dai mercati e dalla maggior parte degli analisti. Ciò è dovuto a tre fattori. Da un lato, è troppo presto per vedere l'impatto dei dazi sui prezzi, poiché gli importatori statunitensi hanno anticipato i dazi accumulando scorte: occorreranno diversi mesi per vedere l'effetto completo.

Come secondo fattore, è improbabile che l'amministrazione statunitense spinga le aliquote medie dei dazi sulle importazioni a livelli tali da intaccare in modo significativo le catene del valore esistenti. I produttori statunitensi dipendono fortemente dalle forniture dall'estero e la sostituzione di tali forniture non solo sarebbe dolorosa nel breve termine, ma nella maggior parte dei casi richiederebbe realisticamente diversi anni per essere attuata. Secondo Richard Baldwin (1), il “tasso medio effettivo è passato da circa il 2% nel 2024 a circa il 7% ad aprile, per poi raddoppiare al 16% ad agosto. Tuttavia, questi aumenti non hanno raggiunto livelli tali da minacciare la stabilità dell'economia statunitense”. Allo stesso tempo, le previsioni di base di Oxford Economics indicano che l'inflazione CPI nel 2025 sarà in linea con quella del 2024, con un possibile leggero calo nel 2026, frenata dalla minore domanda interna e dai prezzi più bassi dell'energia. L'eventuale applicazione di dazi significativamente più elevati e la prospettiva di ulteriori dazi ai sensi della Sezione 232 su prodotti farmaceutici, semiconduttori e altri settori implicano comunque che la aspettativa di base di inflazione ancora contenuta possa rivelarsi più persistente del previsto, soprattutto se la Fed adottasse una politica monetaria più accomodante – ma allo stato attuale è un rischio (da monitorare), non l’ipotesi di maggiore probabilità di accadimento.

Il terzo fattore che contribuisce a spiegare l'impatto limitato dei dazi sulle importazioni sull'inflazione (e sulla crescita) statunitense è il peso ridotto del valore aggiunto dei manufatti nell'economia statunitense, una caratteristica comune a tutte le economie avanzate. La quota del settore manifatturiero sul PIL statunitense è pari a circa il 10% e i dazi sulle importazioni riguardano esclusivamente i prodotti manifatturieri. In altre parole, il 90% dell'economia statunitense non è interessato dai dazi sulle importazioni. Inoltre, solo una quota delle aziende manifatturiere USA necessitano di catene del valore internazionali per la loro produzione interna.


Protezionismo, economia e commercio internazionale

Le misure protezionistiche sono dannose per la crescita, la ricerca, la diffusione dell'innovazione e i mercati del lavoro. Tuttavia, nonostante l'enorme incertezza creata dai dazi statunitensi, cresce la sensazione che l'economia globale e i mercati finanziari possano convivere con essi, anche se alcuni settori subiranno forti turbolenze. La quota media del settore manifatturiero sul PIL nelle economie dell'OCSE è pari a circa il 15%. Nel complesso, è prevedibile che l'impatto macroeconomico complessivo dell'aumento dei dazi (almeno per quanto visto finora) sull'economia globale sarà attenuato e mitigato da politiche fiscali favorevoli e, in misura minore, monetarie, soprattutto negli Stati Uniti e in Cina.

Ciononostante, è lecito ritenere che gli effetti negativi dei dazi, dovuti all’inflazione attesa, alla contrazione dei redditi reali delle famiglie statunitensi e alla riduzione degli investimenti generata dalla maggiore incertezza, stiano appena iniziando a farsi sentire. A un secondo semestre debole quest'anno seguirà probabilmente una crescita fiacca nel 2026, con un tasso del 2,5% circa in entrambi gli anni. Si tratterà dei due anni di crescita più debole dal 2009, esclusa la pandemia del 2020, ma la situazione è ben lungi dall'essere disastrosa.

I dazi del presidente degli Stati Uniti Donald Trump annunciano un'era di commercio più frammentato e di maggiore protezionismo, ma questo è solo una parte di un cambiamento più generale nella politica economica, con i governi che probabilmente adotteranno politiche fiscali più attive. Tuttavia, un maggiore ricorso alla politica fiscale espansiva potrebbe rendere più difficile per le banche centrali mantenere l'inflazione vicina all'obiettivo, in particolare se le forze geopolitiche e il cambiamento climatico provocassero shock di offerta più gravi rispetto ai primi due decenni del secolo.

Ciò aumenta il rischio di cicli economici più brevi e discontinui, in netto contrasto con i lunghi cicli economici degli anni '90 e dell'inizio del XXI secolo. Nel frattempo, l'aumento del debito pubblico e la maggiore volatilità economica è probabile che determini un aumento dei premi a termine sui titoli di Stato a lungo termine nelle economie avanzate. La maggiore espansività delle politiche di bilancio nelle economie avanzate non arriverà al punto di scatenare il panico sulla sostenibilità del debito o crisi del debito sovrano, almeno tra le economie avanzate, ma la minore attenzione ai piani di contenimento dei deficit potrebbe rappresentare un'occasione persa per mettere le finanze pubbliche su basi più solide.

Oltre all'aumento dei rendimenti a lungo termine, una politica fiscale più espansiva contribuirà probabilmente ad aumentare la volatilità dell'inflazione, rendendo ancora più difficile il compito delle banche centrali di mantenerla stabile. Inoltre, il maggiore rischio di futuri shock di offerta, dovuto a fattori quali l'incertezza geopolitica e il cambiamento climatico, farà sì che il periodo di inflazione eccezionalmente bassa e stabile dei primi vent'anni di questo secolo difficilmente si ripeta.

L'inflazione più volatile, i rischi più elevati di errori politici e una crescita tendenziale leggermente più lenta aumentano la probabilità di periodi di espansione più brevi rispetto a quelli osservati negli anni '90 e nei primi anni 2000, segnalando forse anche un ritorno ai cicli di stop-start dell'era precedente all'introduzione degli obiettivi di inflazione.

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