La mia pagina delle notizie su Facebook raccoglie post un po’ da tutto il mondo, scritti in lingue diverse.
Questo arriva dal Qazaqstan (in italiano Kazakistan), che dal 2018 ha adottato la forma con la “Q” nel nuovo alfabeto latino, abbandonando quello cirillico per marcare la distanza dall’eredità sovietica. I suoi cittadini, i kazaki (qazaq), prendono il nome dalla parola qazaq, che significa persona libera, senza vincoli, indipendente — un termine che riflette l’identità storica e lo spirito autonomo del popolo delle steppe.
Il post è scritto in russo, la lingua che per anni ci ha permesso di comunicare con i miei amici e di raccontare anche agli italiani il genocidio sovietico dei kazaki (qazaq).
È un breve dialogo tra due kazaki, un frammento di vita in un Paese “terzo”, che non vive la guerra direttamente ma conserva un’eredità storica e una vicinanza geografica che gli permettono di vedere con estrema chiarezza che cos’è la guerra di Mosca. In poche righe, il post mostra la realtà quotidiana nelle regioni “non russe” della Federazione Russa, dove la guerra svuota interi villaggi, colpisce le minoranze etniche e mette a rischio la sopravvivenza stessa dei popoli.
Ecco il testo originale del post del mio amico:
“Mi ha chiamato un amico.
— Come va, Kana?
— Tutto bene…
— Mia nipote si è sposata.
Lo sposo è identico a Harry Potter, solo che è di Elista. (Elista è la capitale della Calmucchia, una repubblica buddista all’interno della Federazione Russa). Gli mancheranno almeno nove diottrie, porta occhiali spessissimi. Io ero al kyz atu — una cerimonia matrimoniale tradizionale. Sono calmucchi.
— Che bello! E com’era la famiglia dello sposo?
— Solo donne.
Gli ho chiesto: «E gli uomini dove sono?»
Mi rispondono: «In guerra».
Ecco la nuda verità.
I calmucchi sono appena circa 180.000 in tutta la Federazione Russa. Se si continuano a reclutare in massa gli uomini in età militare, basta una generazione per cancellare un intero popolo.
Nei commenti al post originale, molti confermano che la stessa situazione si ripete anche in Bashkiria e nel Tatarstan: altre regioni non russe, cosiddette repubbliche autonome della Federazione Russa, dove il reclutamento è sproporzionato e colpisce soprattutto le minoranze etniche.
Nei regimi totalitari, i soldati non sono solo nell’esercito: sono tutta la società. La popolazione viene trasformata nella materia prima della guerra — carne da propaganda e da trincea.
La Federazione Russa, come ogni regime fondato sulla violenza e sulla paura, non difende la propria gente: la consuma.
Le minoranze etniche vengono mandate al fronte, mentre i bambini ucraini rapiti vengono “rieducati” per diventare strumenti ideologici, e l’intera popolazione civile della federazione viene sacrificata per sostenere la narrazione di una “guerra sacra russa” contro l’Occidente.
Dire “è colpa di Putin” è comodo, ma riduttivo.
Significa ignorare che la Federazione Russa è uno Stato nato nel 1991, sulle rovine dell’URSS, e che ha perso la sua lotta interna per la democrazia nel 2012, quando le proteste di Mosca furono schiacciate e la società civile ridotta al silenzio.
Da quel momento, il potere ha sostituito completamente il linguaggio della libertà con quello della vendetta, della missione imperiale e della “difesa dei valori tradizionali” — un linguaggio che giustifica ogni tipo di repressione e di guerra.
Oggi la Federazione Russa esporta il terrorismo come strumento di politica estera, manipolando conflitti e movimenti radicali in tutto il mondo: dall’Africa al Medio Oriente, dai Balcani fino all’Europa.
Mosca, come Hamas — o meglio, Hamas come Mosca — usa i civili come scudi e simboli, trasformando le persone in mezzi per raggiungere fini geopolitici.
Oggi la parola genocidio viene usata in modo caotico e spesso manipolato.
La tragedia di Gaza — reale, straziante, innegabile — è diventata un terreno di propaganda, dove la sofferenza delle persone viene strumentalizzata per alimentare odio politico. Ma definire genocidio ogni guerra o bombardamento significa svuotare di senso una parola che nella storia ha un significato preciso e terribile.
Il genocidio non è solo la morte di molti civili: è un progetto consapevole di eliminazione di un popolo, di una cultura, di un’identità etnica o nazionale. Può avvenire anche senza un colpo di pistola — come accadde in Ucraina nel 1932–1933, durante l’Holodomor, la carestia artificiale voluta dal regime sovietico non come effetto di un conflitto, ma come arma politica per distruggere l’identità di una nazione e negare la sua memoria collettiva.
Il genocidio è l’idea, prima ancora dell’azione, di cancellare l’esistenza dell’altro.
A differenza dei conflitti, dove la violenza può avere uno scopo militare o territoriale, il genocidio è una struttura di pensiero: mira a distruggere le basi stesse della vita di un gruppo — la lingua, la memoria, i figli, la continuità culturale.
È ciò che accade oggi in Ucraina, dove la Federazione Russa deporta bambini, vieta la lingua, riscrive la storia e bombarda sistematicamente infrastrutture civili per cancellare la possibilità stessa di esistenza di una nazione libera.
Chiamare “genocidio” tutto ciò che provoca dolore può sembrare un atto di solidarietà, ma in realtà distorce la memoria delle vere vittime del genocidio e confonde la responsabilità dei carnefici.
È una scelta comoda — emotiva, ma non etica — perché evita di guardare in faccia la realtà e di distinguere tra la violenza di una guerra e la logica dell’annientamento.
Nel caso della Federazione Russa e di Hamas, la logica è la stessa: entrambi trasformano la morte in propaganda, costruiscono consenso sulla paura, sulla vendetta e sull’idea di una missione “sacra”.
Entrambi sfruttano il dolore delle vittime — reali o costruite ad arte — per giustificare nuovi massacri.
Mosca e Hamas parlano lingue diverse, ma condividono la stessa grammatica della menzogna: presentarsi come “resistenza”, mentre sono essi stessi regimi o movimenti di occupazione; accusare l’Occidente di “ipocrisia” per nascondere il proprio terrore quotidiano; e usare la parola “genocidio” come arma politica per distorcere la percezione pubblica e svuotare di senso il diritto internazionale.
La Federazione Russa sostiene Hamas non solo per indebolire Israele, ma per frammentare la coscienza morale dell’Occidente, sostituendo la compassione con la confusione e la solidarietà con il sospetto.
Ogni volta che i media italiani amplificano le narrazioni prodotte da queste centrali di propaganda, Mosca vince una battaglia: quella per la relativizzazione del male, dove non esistono più colpevoli né vittime, ma solo “punti di vista”.
E così, mentre si discute di genocidio come di un concetto astratto, si dimentica che il vero genocidio — fisico e culturale — è già in atto: contro l’Ucraina, contro i popoli non russi della Federazione Russa e contro la verità stessa.
Finché non si avrà il coraggio di guardare in faccia la natura della Federazione Russa — riconoscendola per quello che è, uno Stato terrorista che nega la libertà al proprio popolo e la attacca ovunque nel mondo — e di ammettere che Hamas non è la voce di un popolo, ma lo strumento di un potere che vive di odio e distruzione, non sarà possibile contrastarne il veleno, né difendere davvero la democrazia.
