Bergoglio e l’economia: le eresie di un Papa

Economia

di Matteo Poloni,

Jorge Mario Bergoglio è oramai Storia.

Il suo papato sarà ricordato per l’attenzione verso gli ultimi, i tentativi di riformare la Chiesa e i gesti simbolici che hanno segnato il suo pontificato.

Tuttavia, accanto a questa eredità si staglia un macigno che non può e non deve essere ignorato: il suo lascito politico, in particolar modo le sue posizioni economiche.

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Bergoglio non ha fatto eccezione alla consuetudine del vescovo di Roma, fin dai tempi di San Pietro, di esprimersi su temi economici: tra Esortazioni apostoliche, Encicliche, discorsi e interventi più di una volta ne ha parlato, tant’è che oggi esiste anche la c.d. “Economia di Francesco”.

Il problema, però, è che lui stesso ha dichiarato più di una volta di avere una comprensione limitata di questa materia. Il risultato?

Una serie di errori, omissioni, travisazioni e negazioni della realtà che non trovano né giustificazione, né pietà di giudizio: siamo di fronte a vere e proprie eresie.

E non importa che stiamo parlando del Papa. Anzi, è proprio questo il punto.

Bergoglio non era un uomo qualunque: era il capo della Chiesa Cattolica, con un'influenza che si estendeva a miliardi di persone. E la Chiesa ha un ruolo di forza morale non trascurabile.

Le sue parole e i suoi scritti hanno un peso e proprio per questo non possiamo ignorare quanto ha affermato in questi anni, un lascito che deve essere affrontato con rigore in quanto pericoloso; perché ricordiamolo: l’azione umana è guidata dalle idee.

E se le idee sono sbagliate, la strada che si apre non porta al paradiso, ma all'inferno in terra.

Premessa: le origini del Papa incidono

Bergoglio, come ogni uomo, non sfugge al principio per cui le idee che ci guidano siano influenzate dall’ambiente in cui siamo cresciuti.

E il contesto dal quale proveniva era tutt’altro che tra i più favorevoli all’economia di mercato.

Nato nel 1936 in Argentina, ha infatti vissuto il periodo nero del regime peronista, un fascismo populista con uno stretto controllo governativo sull’economia che ha condannato al declino un paese che all’inizio del XX secolo si collocava tra le prime quindici nazioni industrializzate.

E se da un lato lo Stato non aiuta, la Chiesa di quegli anni non arrivava di certo in soccorso.

Pio XI, noto ai più per la sua avversione al socialismo e la ferma condanna del comunismo (Enciclica Divinis Redemptoris 1937), fu in realtà anche un forte critico del liberismo per il suo impatto sociale, come emerge chiaramente nell’Enciclica Quadrageismo Anno (1931)(1).

Non sorprende quindi che Bergoglio abbia maturato un’avversione di fondo al capitalismo che riflette chiaramente la mentalità collettivista del “noi contro voi”; già ben prima del 2013 esprimeva posizioni forti in tal senso e le cose non sono di fatto cambiate con l’elezione al soglio pontificio (2), segnando per i critici un vero e proprio punto di rottura nella Dottrina Sociale della Chiesa (3).

Ma, al di là di frasi come “questa economia uccide”, quali sono le critiche di Bergoglio al capitalismo? E soprattutto, quali sono i limiti e gli errori in tali posizioni?

La menzogna dell’economia “gioco a somma zero”

Una delle più gravi e persistenti fallacie argomentative della critica al sistema capitalistico è l’idea del gioco a somma zero: la ricchezza del singolo deriva esclusivamente dall’aver depredato qualcun altro.

In altri termini? Se tu hai guadagnato qualcosa, tu lo hai fatto a spese di un’altra persona, il tuo vantaggio è la perdita di qualcun altro.

Questa concezione del sistema economico, visto come una torta che non cresce mai e a cambiare è la sola spartizione delle fette, traspare anche negli scritti e nei discorsi di Bergoglio, il quale sembra adottare l’idea che la povertà sia un fenomeno economico strutturale, inevitabile e intrinseco al sistema capitalistico.

Per Francesco I il capitalismo è quindi guidato da una logica di sfruttamento del ricco sul povero, come ben emerge nel suo messaggio per la Terza Giornata Mondiale dei Poveri (2019):

Nel momento della composizione di questo Salmo […] Era il tempo in cui gente arrogante e senza alcun senso di Dio dava la caccia ai poveri per impossessarsi perfino del poco che avevano e ridurli in schiavitù. Non è molto diverso oggi. […] Il Salmista descrive con crudo realismo l’atteggiamento dei ricchi che depredano i poveri: “Stanno in agguato per ghermire il povero…attirandolo nella rete” (cfr Sal 10,9).  (4)

giungendo poi in Fratelli Tutti a criticare gli economisti sull’effettiva diminuzione della povertà nel corso dei secoli (5).

Peccato che l’idea per cui la ricchezza di pochi sia la causa diretta della miseria degli indigenti è una menzogna che si scontra tanto con la logica quanto con la realtà storica.

La critica del Papa alla metodologia economica non ha alcun fondamento: nel misurare la povertà si tiene sempre conto dei progressi tecnologici e delle opportunità di sviluppo, i dati non sono mai separati dal contesto dal quale emergono.

Di conseguenza chiediamoci: viviamo noi oggi nelle stesse condizioni dei nostri nonni o bisnonni? Consumiamo gli stessi beni, affrontiamo gli stessi problemi legati ai bisogni primari? Abbiamo a che fare con una trappola malthusiana, dove la scarsità di cibo e risorse limitava la vita quotidiana e il progresso? La risposta è un deciso NO.

Oggi siamo in un mondo in cui la disponibilità di beni e risorse è incomparabilmente più ampia rispetto al passato, e la capacità di acquisto, anche dei più poveri, è enormemente aumentata grazie al progresso economico.

Per quanto la povertà non sia stata ancora debellata, nel sistema di mercato la ricchezza non si accumula togliendo ad altri, ma si crea tramite lo scambio volontario e la cooperazione: è un gioco in cui più persone vincono contemporaneamente.

Le innovazioni tecnologiche e le opportunità economiche create dal sistema capitalistico hanno permesso a intere generazioni di superare i limiti imposti dalla scarsità, portandoci al disaccoppiamento tra consumo di risorse e ricchezza generata.

La torta – detta in altri termini – è nei secoli aumentata.

E su tali basi giungiamo alla distorta comprensione di Bergoglio sul concetto stesso di mercato.

La critica ai mercati: tra caos concettuale e negazione della storia

Bergoglio in Laudatio Si’ scrive: (6)

Dal momento che il mercato tende a creare un meccanismo consumistico compulsivo per piazzare i suoi prodotti, le persone finiscono con l’essere travolte dal vortice degli acquisti e delle spese superflue. Il consumismo ossessivo è il riflesso soggettivo del paradigma tecno-economico […]l’essere umano «accetta gli oggetti ordinari e le forme consuete della vita così come gli sono imposte dai piani razionali e dalle macchine normalizzate e, nel complesso, lo fa con l’impressione che tutto questo sia ragionevole e giusto». Tale paradigma fa credere a tutti che sono liberi finché conservano una pretesa libertà di consumare, quando in realtà coloro che possiedono la libertà sono quelli che fanno parte della minoranza che detiene il potere economico e finanziario […]

La situazione attuale del mondo «provoca un senso di precarietà e di insicurezza, che a sua volta favorisce forme di egoismo collettivo». Quando le persone diventano autoreferenziali e si isolano nella loro coscienza, accrescono la propria avidità […]

Qui emergono due carenze concettuali che sono in verità una questione storica di determinati ambienti e ideologie nel loro approccio all’economia:

  1. la confusione reiterata su cosa siano i mercati e quale sia la loro funzione;
  2. la non distinzione tra individualismo e atomismo sociale.

Concentrandoci sul primo punto, esiste un principio così elementare che dovrebbe essere inciso nella pietra al pari dei 10 comandamenti:

il mercato non è un soggetto, non è un individuo, non ha né volontà, né morale.

Il mercato è un processo, un meccanismo, un mezzo.

È il complesso degli scambi volontari che individui, famiglie, imprese ed enti concludono ogni giorno per soddisfare i propri bisogni, vincolati dalle proprie disponibilità, necessità e preferenze.

Accusare il mercato di imporre gusti o stili di vita distruttivi ha la stessa valenza di accusare il linguaggio delle bestemmie affermate da qualcuno.

Da quando lo strumento è responsabile dell’uso che se ne fa? È il mercato a dirci cosa sia bene o male? O siamo noi a scegliere?

Noi siamo il motore dell’azione, noi siamo la sua forza, la sua guida.

Il mercato riflette ciò che siamo noi, è un mero canale, uno spazio in cui ci esprimiamo per trattare le nostre necessità.

Trattative e scambi basati su una risorsa, la fiducia, che lo stesso Bergoglio giunge pure a negare nell’Enciclica Fratelli Tutti quando afferma:

D’altra parte, «senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare» (7)

Ma davvero è venuta a mancare? E se sì, quando?

Guardate la vostra giornata, pensate anche al gesto più semplice.

Avete comprato qualcosa? Allora avete avuto fiducia nel fatto che il venditore vi ha dato ciò che vi serviva e lui ha fiducia nel valore del vostro denaro o della vostra promessa di pagamento.

Siete andati a lavorare? Avete fiducia nel fatto che verrete pagati.

Avete acquistato online? Avete pagato (o assunto un impegno) a fronte di un impegno di consegna.

Se non vi fosse fiducia come sarebbero stati allora possibili tali scambi?

È vero, esistono contesti in cui la fiducia è minore, più fragile, sia essa per istituzioni deboli, maggior rischi o minori reputazioni, ma non viene mai meno.

Senza di essa non vi sarebbe il mercato. Senza il mercato saremmo già tornati all’autoproduzione. Siete per caso tornati a produrre i vestiti da animali che avete cacciato? Alquanto improbabile.

E in tal consesso si innesta la ricorrente contestazione al “sistema capitalistico”, mossa con un approccio così aprioristico ed impreciso da essere del tutto antistorica.

Ricordiamolo: capitalismo non è un sinonimo di liberismo, non è una dottrina politica.

Capitalismo è un paradigma produttivo. Il paradigma la cui forza in due secoli ha generato un progresso economico e sociale privo di precedenti nella storia umana.

Piaccia o meno, il crollo verticale della povertà a livello globale lo dovete a questo sistema, perché senza progresso della tecnica e della tecnologia applicata su scala industriale, senza l’offerta di possibilità, di una concreta opportunità di sviluppo, non vi è uscita dalla povertà.

E senza la ricchezza non vi può essere il dono, l’attenzione al più debole.

Cosa si può donare se non si riesce nemmeno a coprire i propri bisogni primari? Come coltivare, come trasmettere i valori del vivere civile se la miseria stessa impedisce a tale civiltà di affermarsi?

Questo significa poi che va tutto bene? Tutto funziona alla perfezione? No.

Esistono soggetti che abusano del sistema, che piegano le logiche del mercato a fini violenti o predatori, danneggiando persone e ambiente. Ma sono forse tutti così? Assolutamente no.

Il che ci porta all’altro errore concettuale profondo: la confusione tra individualismo e atomismo.

L’individualismo non è atomismo

Negli scritti di Bergoglio e della pubblicistica a lui vicina si perpetua un errore concettuale tale da minare alla base ogni pretesa di critica: la sistematica confusione tra individualismo e atomismo.

Due concetti distinti e distanti finiti per essere trattati come sinonimi.

Se l’atomismo è infatti l’idea che l’individuo è un’entità chiusa, autosufficiente, indifferente agli altri e alle sorti della società, l’individualismo è l’esatto contrario: è il concetto cardine su cui devono essere imperniati i legami sociali.

L’individualismo è riconoscere l’individuo come unità fondamentale dell’azione.

Solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce.

Solo dall’azione di individui mossi dal proprio interesse personale unita alla responsabilità personale può nascere una società libera e prospera.

Non è in tal senso un caso che Adam Smith ci ricordi nella tanto dimenticata Teoria dei sentimenti morali che l’uomo agisce nella società, ma avendo come primo giudice non la collettività, bensì la propria coscienza, il proprio io interiore.

Dire che l’uomo agisce in quanto egoista non è provocazione, non è insulto: è constatazione.

L’uomo per sua natura è egoista, altra parola travisata nel suo significato più basilare.

Egoismo è prendersi cura di sé stessi, tutelare i propri interessi: come può essere aprioristicamente malvagio preoccuparsi del proprio benessere?

Riteniamo davvero che ogni azione rivolta a sé stessi sia moralmente inferiore rispetto a quella rivolta agli altri? Se sì, riflettiamo un momento.

Poniamo sullo stesso piano l’imprenditore che cerca un profitto con onestà e il ladro che si arricchisce depredando? Chi aiuta gli altri perché avverte il bisogno di farlo, per la propria pace o coerenza morale, compie davvero un’azione altruistica in senso assoluto?

Non è anche questo soddisfare un proprio bisogno?

Il punto non è quindi se l’uomo agisca per interesse, perché sempre lo fa. La domanda semmai è: quali sono i valori che guidano tale interesse?

Il caos è figlio della corruzione dei valori che guidano l’agire, non dell’interesse personale in sé.

Il mercato è il luogo dell’incontro, dello scambio, della cooperazione volontaria.

Problemi quali consumismo sfrenato, sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente non sono generati dal mercato in quanto meccanismo, bensì da noi, dalla nostra scelta figlia dei nostri valori.

Il mercato è possibilità: nessuno ci impone di acquistare, non abbiamo una pistola alla tempia.

Il mercato è scambio: esservi favorevoli non vuol dire sostenere uno stile di vita distruttivo.

E, coerentemente con tutto questo: senza ricchezza, senza il capitalismo e i valori fondanti della libertà economica e della proprietà privata, non esiste possibilità alcuna per la vera ed efficace carità.

Non esisterebbe il Terzo Settore così spesso chiamato a sopperire alle carenze di uno Stato inefficiente; filantropia, mecenatismo, la più basilare donazione sarebbe impossibile se non vi fosse chi — grazie alla libertà di creare, produrre, accumulare — possa poi scegliere di restituire.

Il problema non è la libertà economica. Il problema è come la si usa.

E ciò dipende, ancora una volta, dal set valoriale dell’individuo, non dal mercato, non dal capitalismo.

Profitto e ambiente: se vuoi salvare il secondo devi massimizzare il primo

Neanche il concetto di profitto è esente da critiche.

Pur riconoscendo nella Laudato Si’ che l’attività imprenditoriale sia una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti (8), al contempo traspare chiaramente una concezione d’impresa profondamente preoccupante: se l’impresa si orienta esclusivamente al profitto è una realtà distruttiva. Bergoglio infatti scrive:

Il principio della massimizzazione del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente […] Vale a dire che le imprese ottengono profitti calcolando e pagando una parte infima dei costi. Si potrebbe considerare etico solo un comportamento in cui «i costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future». (9)

Un ragionamento fondato su una premessa completamente errata.

Il profitto è visto come un fine isolato dalla realtà, ma è semmai vero l’opposto: è la via da percorrere per creare valore nel lungo termine.

La salvaguardia dell’ambiente e della società richiede di inglobare le esternalità nei processi produttivi e, se si vuole che le imprese se ne facciano carico, l’unica via è la massimizzazione del profitto.

La domanda, da decenni, è sempre la stessa: verso chi è responsabile l’impresa?

La risposta, semplice e per alcuni scomoda, è sempre una: un’impresa risponde del miglior uso delle risorse per massimizzare il profitto, nel rispetto delle regole del gioco quali libera concorrenza, trasparenza, legalità.

Ma massimizzare non significa ignorare gli impatti ambientali o sociali, anzi.

Questo è il cuore dell’ESG (Environmental, Social and Governance): includere strategicamente l’ambiente, il sociale e la governance è propedeutico a massimizzare il profitto. Farlo non perché imposto, bensì perché conviene.

L’impresa non è una realtà a sé: è un sistema aperto e interconnesso.

Se ignori l’ambiente, chiudi. Se ignori i lavoratori, chiudi. Se ignori le esigenze del mercato, degli stakeholder con cui lavori, chiudi.

Il futuro passa per l’integrazione, non per la condanna. Bisogna accettare:

  1. di non colpevolizzare le imprese, di imporre azioni dall’alto se non matura una consapevolezza imprenditoriale che sia ragionata, concreta e coerente con il contesto nel quale la stessa opera
  2. che nessun cambiamento scalabile è possibile contro il mercato. Il cambiamento avviene attraverso il mercato, quanto i costi diventano opportunità e i limiti spinta ad innovare.

Cosa si risolve vedendo il profitto come distruzione, il mercato come predatore e imponendo correttivi senza capire le logiche di fondo?

E si badi bene, questa non è vuota retorica per vuoti idoli. Questo è un tema ostaggio di un pluridecennale dibattito segnato da moralismo ed errori tecnici che se non affrontati con rigore - come scrissi nella mia tesi di laurea magistrale - possono costare assai cari (10).

La questione della speculazione

In continuità con il tema del profitto, voglio ora affrontare la questione della speculazione, prendendo a riferimento questo passaggio dell’Enciclica Fratelli Tutti:

La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage (11).

Pura violenza concettuale.

Parole come “strage” o “guadagno facile” ci trascina in un’antica, plurisecolare, ridondante narrativa ossessionata dal demonizzare la speculazione, una volontà di condanna morale che non lascia plausibili giustificazioni se non la malafede della voluta disinformazione o l’ignoranza tecnica profonda.

Prima di condannare ordunque chiediamoci: sappiamo davvero cos’è la speculazione? O chi la pratichi?

Speculare è acquistare (o vendere allo scoperto) un bene con l'intento di rivenderlo (o riacquistarlo) in futuro, con il fine di ottenere un profitto.

Un profitto atteso sulla base delle informazioni che noi abbiamo e della nostra capacità di intepretarle.

E questo lo fanno tutti. Tutti noi speculiamo. 

Ragioniamoci, non è perfettamente tecnico, ma rende l’idea (12).

Andiamo al supermercato per acquistare delle zucchine e vediamo che costano € 2 al kilo. Per qualche motivo crediamo che il prezzo stia per scendere e decidiamo di rinviare l’acquisto; torniamo il giorno dopo e le prendiamo a € 1,50.

Congratulazioni: abbiamo appena speculato. Ti senti crescere le squame sul corpo per questo?

Speculare è assumersi il rischio di prevedere come il prezzo di un bene cambia nel tempo.

Se avremo avuto ragione, il profitto sarà il nostro premio.

Questa attività è tutt’altro che sterile, è funzionale al corretto funzionamento del mercato perché lo speculatore:

  • garantisce la liquidità (è più facile acquistare o vendere asset);
  • contribuisce alla scoperta di prezzo (price discovery) facendo sì che i prezzi di mercato riflettano quelle informazioni che per quanto disponibili, non sono ancora generalmente considerate;
  • aiuta a soddisfare la domanda di copertura di rischio di chi lo vuole evitare.

È vero, la speculazione può essere abusata, ma in linea di principio non è un gioco d’azzardo.

L’azzardo si basa sul caso, la speculazione su informazioni e analisi, un’attività che favorisce un’allocazione più efficiente delle risorse.

E sì, la speculazione mira al profitto, ma allora chiediamoci:

  1. Il profitto è sempre un male? O conta come viene ottenuto?
  2. Preferite un’allocazione efficiente delle risorse o, quando si parla di “finanza” o “profitto”, lo spreco diventa accettabile?

La speculazione non è parassitismo, è un meccanismo che stimola l’incontro tra realtà e aspettative per favorire lo spostamento delle risorse verso aree più produttive.

Se Tizio prevede un aumento della domanda di energia eolica, investirà in aziende del settore, aspettandosi un guadagno futuro. Questo è un segnale che invia il mercato.

Se ha ragione, altri operatori lo seguiranno. Se sbaglia, perderà solo lui.

Cosa c’è di sbagliato in questo in linea di principio? Niente, assolutamente niente.

Conclusioni

Il pontificato di Bergoglio entrerà indubbiamente nella storia per le diverse azioni e tentativi di cambiamento posti in essere in questi anni.

Tuttavia non possiamo non sottolineare che pur essendo il Papa, egli non è esente da critiche.

In questo articolo sono stati esaminati solo alcuni degli aspetti più critici delle sue posizioni economiche e altri temi dovrebbero essere ancora affrontati, dal suo favore al maggior controllo statale, alle dichiarazioni su proprietà privata, lavoro e denaro.

Tuttavia, anche senza entrare nel dettaglio, pure queste ultime non si differenziano dalle precedenti per la loro lontananza dalla realtà dei fatti e dalle ferree leggi fondamentali dell’economia.

La conclusione è che Bergoglio non mentiva su sé stesso: la sua competenza economica è limitata e il poco che sa è distorto.

Le leggi che regolano l'azione umana devono essere comprese con lo stesso rigore con cui un fisico studia le leggi della natura, fondandosi su logica e dati.

E se è vero che le azioni sono guidate dalle idee, la Chiesa dovrebbe allora concentrarsi sui valori che guidano tali azioni piuttosto che cercare di entrare nel merito dei tecnicismi.

Senza efficienza non vi è possibilità di preservare.

Senza ricchezza non vi è spazio per il dono.

E come disse una volta Margaret Thatcher: nessuno ricorderebbe il Buon Samaritano soltanto per le sue buone intenzioni. Aveva anche i soldi.

Tag: Papa FrancescoPapaVaticano

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