Kashmir in Fiamme: La Valle Contesa sull’Orlo del Baratro

Estero

di Luciano Campisi,

Il silenzio della valle di Pahalgam, un tempo rifugio per turisti in cerca di pace tra i picchi dell’Himalaya, è stato squarciato il 22 aprile da raffiche di mitra. Ventisei persone, di cui venticinque turisti indiani e una guida locale, sono cadute sotto i colpi di un attacco armato, il più letale nel Kashmir indiano dal 2019. L’attentato ha riacceso un conflitto che da decenni lacera questa terra himalayana, spingendo i due vicini, India e Pakistan, sull’orlo di una nuova crisi. Mentre le sirene della guerra risuonano lungo la Linea di Controllo (LdC), i kashmiri, intrappolati tra le ambizioni geopolitiche dei due Paesi, temono che la loro terra torni a essere, come per troppo tempo è stata, un campo di battaglia.

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La vicenda

Secondo le autorità indiane, l’attacco è stato rivendicato dal Fronte di Resistenza, considerato un’emanazione del gruppo terroristico di matrice jihadista pan-islamica Lashkar-e-Taiba, con base in Pakistan. “Questo è un atto di guerra,” ha dichiarato Tara Kartha, direttrice del Centre for Land Warfare Studies di Nuova Delhi, in un’intervista a Vatican News. “Solo se il Pakistan condannerà l’attacco con la massima fermezza e agirà contro i terroristi, si potrà evitare una grave crisi.”

L’attentato ha colpito soprattutto turisti indù, un dettaglio che alimenta le tensioni religiose in una regione a maggioranza musulmana. Come riportato da Euronews, il Kashmir ha visto un aumento di attacchi mirati contro gli indù dopo che, nel 2019, il governo indiano ha revocato l’articolo 370 della Costituzione, ponendo fine allo status di semi-autonomia della regione e trasformandola in un territorio federale.

L’attacco di Pahalgam non è stato solo un atto di violenza, ma un colpo al cuore della narrativa di “normalità” che il governo indiano, guidato da Narendra Modi, ha cercato di costruire negli ultimi anni. “Questo attacco sfida l’idea che il Kashmir sia un territorio in pace,” ha dichiarato Praveen Donthi, analista senior dell’International Crisis Group, al The Independent. “I kashmiri sono sempre i primi a pagarne le conseguenze.”  

Secondo quanto riportato nell’articolo succitato, le autorità indiane hanno risposto con una massiccia operazione di sicurezza, trattenendo oltre 2.000 persone e arrestandone diverse altre grazie a speciali leggi antiterrorismo che consentono la custodia senza accuse formali. Nuova Delhi ha imposto un divieto immediato sull’importazione di beni pakistani e ha sospeso i visti. Islamabad ha replicato con misure speculari, mentre il suo esercito testava un missile balistico, l’Abdali, il 3 maggio, in un chiaro segnale di sfida. “L’altra parte deve aver visto la nostra energia, il nostro spirito”, riporta Politico le parole di un cittadino, Sundas Batool, il quale si riferisce all’altra parte del confine. “Il mio messaggio all’India è: siamo pronti a tutto”.

Radici di un conflitto senza fine

Il Kashmir, coi suoi confini e i suoi trascorsi, simboleggia la triste storia delle relazioni tra Pakistan e India: un passato fatto di rancori e un presente che riecheggia un odio che pare non volersi mai spegnere. 

La disputa risale al 1947, quando la partizione del subcontinente britannico lasciò il destino della regione in sospeso. Il maharaja indù di Jammu e Kashmir, Hari Singh, optò per l’adesione all’India dopo un’invasione di milizie pakistane, scatenando la prima di quattro guerre tra i due Paesi. “Il sovrano accettò l’India in cambio di garanzie di sicurezza,” scrive il  New York Times. Una scelta azzardata, che diede vita a una spirale di odio. Le conseguenze negative potevano essere previste, almeno in parte: la valle è abitata da una popolazione a maggioranza musulmana, la quale vedeva, sin dal principio, il Pakistan come la propria naturale patria, e il Pakistan affermava che quella comunità musulmana avrebbe dovuto appartenergli.

Ciò che seguì fu la prima guerra indo-pakistana, la cui fine fu decretata nel 1949 dall’intervento dell’ONU: una linea venne così tracciata e il Kashmir assegnato per due terzi all’India. Il confine, peraltro, era da intendersi come temporaneo, una scelta che nella storia ha pagato poco col senno di poi: ne sono una prova concreta la Linea Blu tra Libano e Israele e la divisione che diede vita alle due repubbliche coreane. 

La pace durò per poco: un’incursione pakistana, nel 1965, riaccese un conflitto mai sopito, dando vita ad una breve guerra che Delhi riuscì subito a sedare mediante un attacco all’interno dei confini pakistani: le forze d’assalto furono costrette a ripiegare e, nel 1966, un nuovo accordo di pace venne stipulato a Tashkent, Uzbekistan. 

 

Oggi, il Kashmir è diviso: l’India controlla il 55% del territorio, il Pakistan il 30% e la Cina il restante 15%, inclusa la regione dell’Aksai Chin, acquisita negli anni ‘60 dalla Repubblica Popolare e rivendicata tutt’oggi dall’India. La Linea di Controllo, stabilita dopo la guerra del 1971 (che diede vita al Bangladesh) e sancita dall’Accordo di Simla del 1972, è una frontiera militarizzata dove gli scontri sono frequenti. “Il Kashmir è uno dei punti più pericolosi al mondo,” sottolinea un rapporto di Reuters, fornendo una descrizione accurata degli arsenali dei due paesi, i quali, come già segnalato precedentemente, hanno accesso a testate nucleari.  Nel 1999, un breve conflitto ebbe inizio a causa di altre infiltrazioni pakistane in territorio indiano. 

Nel 2019, ancora, il Kashmir tornò al centro di un’escalation drammatica tra India e Pakistan. Un attacco letale contro le forze indiane, per certe dinamiche simile a quello del 22 aprile, costò la vita a oltre 40 militari e scatenò una rapida reazione: vari aerei da guerra indiani colpirono obiettivi militari in territorio pakistano. Tuttavia, nonostante il rischio di una guerra totale, la tensione si allentò prima di sfociare in un conflitto aperto.

Più avanti nello stesso anno, l’amministrazione indiana, guidata dal primo ministro Narendra Modi, prese una decisione destinata a lasciare un segno profondo, una via di non ritorno. Il Kashmir, difatti, godeva sino a quel momento di una speciale autonomia, garantita dalla costituzione indiana all’art. 370. Nell’agosto del 2019, il governo di Modi abolì l’articolo 370 con il favore della Corte Suprema dell’India assumendo il controllo diretto del territorio.

Questa svolta fu accompagnata da un’operazione repressiva senza precedenti. Migliaia di truppe indiane invasero la regione, le reti di comunicazione furono bloccate, internet e telefoni resi inutilizzabili. Numerosi kashmiri, inclusi leader politici che per anni avevano sostenuto l’India contro i gruppi separatisti, furono arrestati. L’approccio deciso del governo lasciò sbalorditi gli osservatori internazionali.

Nei mesi successivi, sembrò instaurarsi una calma apparente. Gli episodi di violenza diminuirono e il turismo conobbe un’impennata, suggerendo che la strategia avesse portato una certa stabilità. Tutto ciò fino al 22 aprile 2025. 

Dopo il 22 aprile

L’attentato di Pahalgam ha innescato una spirale di tensione e paura. Dal 26 aprile, le truppe indiane e pakistane si sono scambiate colpi di arma da fuoco lungo la LdC per dieci notti consecutive. “Sono scioccato oltre ogni immaginazione. Questo attacco ai nostri visitatori è un abominio. Gli autori di questo attacco sono animali, disumani e degni di disprezzo. Nessuna parola di condanna è sufficiente. Mando le mie condoglianze alle famiglie dei defunti.” ha detto il governatore dello stato federato su X, come riportato in un lungo articolo di India Today

A Chakothi, nel Kashmir pakistano, i residenti stanno rinforzando i bunker. “La gente ha paura,” ha raccontato Faizan Anayat, 22 anni, a Reuters. “Ogni volta che si spara, corriamo nei rifugi.” Sul lato indiano, a Churanda, gli insegnanti guidano i bambini in preghiere per la pace, temendo che il suono delle artiglierie sostituisca quello degli uccelli. “La paura tra i genitori è altissima,” ha detto l’insegnante Farooq Ahmad, sempre a Reuters.

L’India, da parte sua, nella notte del 7 maggio ha lanciato l’operazione Sindoor, il cui nome si ricollega simbolicamente al pigmento rosso che le spose indù applicano sulla fronte e lungo la scriminatura dei capelli: un omaggio, ha detto il premier Modi, alle vedove dell’attacco del 22 aprile. Il governo indiano ha dichiarato di aver eseguito un raid di precisione nel Kashmir pakistano, prendendo di mira i covi di organizzazioni terroristiche note. Il governo di Islamabad, per parte sua, ha reso noto che l’India avrebbe compiuto un attacco indiscriminato, uccidendo almeno 31 civili, tra cui bambini. L’operazione è poi stata definita come un “atto di guerra”. 

La crisi ha attirato l’attenzione globale. Il segretario generale dell’ONU, António Guterres, ha chiesto moderazione, mentre il vice presidente americano JD Vance ha espresso speranza che l’India risponda “in modo da evitare un conflitto regionale più ampio.” La Russia, tramite il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, si è offerta di mediare, richiamando l’Accordo di Simla e la Dichiarazione di Lahore del 1999. L’Unione Europea, per voce di Kaja Kallas, ha esortato entrambe le parti a porre in atto una de-escalation. 

Il 10 maggio, grazie alla mediazione degli USA e della Cina tra gli altri, si è arrivati a un accordo di cessate il fuoco, la cui portata è al momento confusa: stando a quanto sintetizza il Post, poco dopo l’accordo sono state segnalate esplosioni e attività di droni a Srinagar e Jammu, nel Kashmir indiano. L’India ha attribuito le responsabilità al Pakistan, ma ci sono poche certezze in merito. 

Speranze di pace in un futuro grigio

Mentre India e Pakistan con fare sospettoso si scambiano l’ennesima promessa di pace, il Kashmir rimane una ferita aperta. Le dispute territoriali, nonché le minacce nucleari, minano lo svolgersi di una vita normale, degna: per i kashmiri, la pace è un miraggio. A Pahalgam, le sedie e i tavoli rovesciati al sito dell’attacco, fotografati da Reuters, sono un monito della fragilità della regione.

Con il mondo che osserva, la domanda non è se India e Pakistan troveranno un compromesso, ma se il Kashmir potrà mai smettere di essere il loro campo di battaglia.

 

Tag: PakistanIndiageopolitica

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