Silvio Berlusconi è stato uno degli interpreti più evidenti di questa ambigua politica di appeasement. I suoi rapporti personali con Vladimir Putin sono notoriamente stati stretti e continuativi: lo ha difeso pubblicamente anche dopo l’invasione della Crimea del 2014, e fino a pochi mesi prima della sua morte nel 2023 ha continuato a giustificarne le azioni, attribuendo la responsabilità della guerra in Ucraina a Zelenskyy e all'Occidente. Berlusconi ha anche mantenuto solidi rapporti con Muammar Gheddafi, firmando nel 2008 un trattato di amicizia che, sebbene avesse una dimensione di carattere economico, di fatto legittimava un dittatore già compromesso sul piano dei diritti umani.
Ma Berlusconi non è stato solo. L’intera Europa, per oltre un decennio, ha costruito una dipendenza energetica dalla Russia che ha indebolito la propria autonomia strategica. I grandi affari sul gas naturale, come il Nord Stream 1 e il progettato Nord Stream 2, sono stati portati avanti ben oltre i segnali di aggressività del Cremlino. La politica energetica è stata trattata più come business che come questione strategica, e ciò ha finanziato indirettamente la macchina militare russa. A tutto questo si è aggiunta l’ignavia europea di fronte alle campagne di disinformazione orchestrate da Mosca, spesso veicolate attraverso social media, siti web pseudo-giornalistici e vere e proprie fabbriche di troll. Nonostante le numerose prove sull’interferenza russa nei processi democratici di diversi paesi — dalle elezioni agli orientamenti dell’opinione pubblica — la risposta dell’Unione Europea è stata a lungo frammentaria, debole e priva di una strategia unitaria.
L’Unione Europea, infatti, ha armi spuntate quando si tratta di arginare le democrazie alla deriva. I Trattati prevedono solo l’uscita volontaria, non l’espulsione: uno Stato può violare i principi fondamentali dell’UE e restare al suo interno, godendo dei benefici dell’appartenenza senza doverne rispettare pienamente i vincoli. Come già accennato, gli strumenti oggi a disposizione – come il condizionamento dei fondi europei al rispetto dello Stato di diritto – si sono rivelati deboli, soggetti a compromessi e spesso inefficaci. In alcuni casi, colpendo direttamente settori della società civile, rischiano persino di produrre un effetto contrario: rafforzare i governi sotto accusa, alimentando narrazioni vittimistiche e l’ostilità delle popolazioni verso le istituzioni europee. Inoltre, l’elusione facile delle sanzioni da parte dei regimi illiberali, grazie anche alla mancanza di un meccanismo unitario di enforcement, ha reso ancora più difficile contrastare la deriva autoritaria. A questo si aggiunge l’incapacità dell’UE di rispondere con efficacia alle campagne di disinformazione che minano la coesione sociale e il tessuto politico, alimentando divisioni interne. Senza una riforma profonda dei propri meccanismi decisionali e sanzionatori, l’UE rischia di assistere inerte alla corrosione dei suoi stessi principi costitutivi, svuotando dall’interno l’idea di Europa come spazio comune di diritti, libertà e inclusione.
Putin non è solo l'avversario esterno da contenere: è anche il riferimento simbolico di un intero universo culturale che si sta affermando nel cuore delle democrazie occidentali. Incarna valori che piacciono, con sempre meno giri di parole, a molte forze autoritarie in Italia come altrove in Europa: virilismo muscolare, ultranazionalismo etnico, repressione del dissenso, culto della forza, omofobia, disprezzo per il diritto, complicità con reti mafiose, autoritarismo plebiscitario. Un’ideologia totalizzante ma seduttiva, che promette ordine e identità contro la complessità della convivenza pluralistica. È qui che il rischio si fa più profondo: non solo che vengano tollerati i regimi autoritari al di fuori dell’Unione, ma che i loro modelli vengano assimilati all’interno. Nel frattempo, in gran parte d’Europa, le destre estreme guadagnano terreno con messaggi xenofobi, antidemocratici e talvolta apertamente autoritari. La risposta delle istituzioni europee è stata spesso timida o tardiva, in nome di un malinteso principio di equidistanza politica, o per paura di alienarsi consensi popolari.
Un esempio delle contraddizioni nella postura dell’Unione Europea è evidente nel suo rapporto con i paesi alla deriva democratica all’interno dell’Unione, come l'Ungheria. Il governo di Viktor Orban è oggi considerato da molti analisti una vera e propria “autocrazia elettorale”. Nel corso degli anni, Orban ha smantellato l’indipendenza della magistratura, silenziato i media non allineati e riscritto le leggi elettorali in modo da favorire sistematicamente il proprio partito. Eppure, nonostante il riconoscimento formale della deriva illiberale di Budapest, l’UE ha spesso esitato nell’attivare con decisione gli strumenti a sua disposizione. I fondi europei sono stati in parte sospesi, ma senza che a ciò corrispondesse un reale isolamento politico del leader ungherese.
Anche negli Stati Uniti, la tenuta democratica appare sempre più fragile. Donald Trump è tornato al centro della scena politica, galvanizzando una base elettorale radicalizzata e rilanciando retoriche autoritarie. Il suo atteggiamento è ormai esplicitamente illiberale: ha concesso il perdono a diversi partecipanti all’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, ha iniziato deportazioni di massa illegali e ha ripetutamente espresso disprezzo nei confronti del potere giudiziario. Il culto della personalità che lo circonda, insieme alla suo crescente dominio sul Partito Repubblicano, rappresenta il segnale più evidente che il populismo autoritario non solo non è superato, ma è tornato con forza.
Un altro caso emblematico di ambiguità occidentale riguarda la Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdogan, nel corso degli anni, ha progressivamente accentuato il proprio controllo sul potere, reprimendo l’opposizione, perseguitando giornalisti e minoranze, e riducendo drasticamente la libertà di stampa. Nonostante questa deriva autoritaria, l’Occidente ha continuato a considerare Ankara un alleato chiave all’interno della NATO e un “guardiano” contro i flussi migratori verso l’Europa. Una forma di pragmatismo miope che ha permesso a Erdogan di rafforzarsi senza dover pagare un prezzo politico reale.
A completamento di questo quadro, è necessario ricordare due forme storiche di complicità che hanno segnato profondamente la credibilità dell’Occidente: da un lato, la tolleranza, quando non il sostegno attivo, da parte degli Stati Uniti verso numerose dittature liberticide, soprattutto in America Latina, durante la Guerra Fredda. Regimi militari repressivi in Cile, Argentina e altri paesi sono stati considerati “alleati” strategici contro la minaccia comunista, in nome di un pragmatismo geopolitico che ha sacrificato sistematicamente i diritti umani sull’altare della Realpolitik.
Dall’altro lato, le sinistre europee, per decenni, hanno spesso chiuso gli occhi di fronte ai crimini commessi dai regimi comunisti. In nome della solidarietà ideologica, molte forze politiche hanno giustificato o minimizzato repressioni, censure e violenze perpetrate da governi autoritari come quello sovietico, cubano o cinese. Non di rado, si sono fatte portatrici di una propaganda acritica, che ha contribuito a legittimare tali regimi anche in ambito culturale e accademico.
Queste due derive, pur opposte nei presupposti, hanno finito per convergere in un identico esito: l’indebolimento del principio universale dei diritti umani, resi relativi e negoziabili a seconda della convenienza ideologica o strategica del momento.
Un ulteriore esempio della tolleranza occidentale verso l'autoritarismo si riscontra anche nel sostegno, diretto o indiretto, al governo di Benjamin Netanyahu e alla sua coalizione di estrema destra. Basti pensare al partito Noam, il cui leader Avi Maoz ha espresso posizioni apertamente omofobe, oppure a Otzma Yehudit, formazione cui appartiene il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, già condannato per incitazione al razzismo. Nonostante le gravi accuse mosse contro di loro, molti paesi occidentali continuano a mantenere rapporti stretti con Israele.
Nel novembre 2024, la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto per Netanyahu e l'ex ministro della Difesa Yoav Gallant, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l'umanità durante il conflitto a Gaza. Le accuse includono l'uso della fame come arma di guerra e attacchi deliberati contro civili. Nonostante ciò, alcuni stati membri dell'Unione Europea, come l'Ungheria, hanno continuato a ospitare Netanyahu, ignorando gli obblighi derivanti dalla loro adesione alla Corte Penale Internazionale.
La risposta dell'Occidente a queste gravi violazioni è stata, nella maggior parte dei casi, timida o inesistente, evidenziando una preoccupante doppia morale nei confronti dei diritti umani e del diritto internazionale. Se l’Occidente non ripenserà il proprio rapporto con l’autoritarismo — smettendo di tollerarlo quando torna utile — rischia non solo di perdere credibilità, ma di vedere erosi i fondamenti stessi della democrazia che sostiene di difendere.
A lungo termine, il prezzo di questa ambiguità potrebbe essere altissimo: i Paesi europei rischiano di sacrificare la propria indipendenza strategica, chiudersi in una spirale di isolazionismo e nazionalismi esasperati, compromettendo la coesione dell’Unione Europea, i cui popoli, senza una risposta chiara e coerente, non solo saranno meno liberi, ma anche meno uniti, e più vulnerabili di fronte alle sfide globali del futuro.
A questa analisi si potrebbe aggiungere una riflessione più ampia e, se vogliamo, più profonda: la crisi dei valori democratici in Occidente non riguarda solo le scelte delle élite politiche o le strategie geopolitiche delle nazioni. È anche – e forse soprattutto – il riflesso di una fragilità culturale, educativa, che si è andata radicando nel tempo. In questo contesto, la scuola e il suo ruolo nell'educazione ai valori della coesistenza, in particolare quello della libertà, possono rivelarsi essenziali. Non tanto nei termini astratti o retorici in cui la libertà viene a volte celebrata, ma nel suo significato concreto, quotidiano, fatto di responsabilità, spirito critico, partecipazione.
La libertà, in tutte le sue accezioni, non è mai un dato acquisito, ma una conquista che va costantemente difesa, anche e soprattutto attraverso l’educazione. Eppure, la scuola – sovraccaricata di incombenze burocratiche e spesso privata di risorse adeguate – fatica a essere un luogo di formazione civile. Gli studenti crescono in un contesto in cui le parole “libertà” e “diritti” rischiano di apparire vuote, slegate dalla realtà, mentre modelli autoritari si insinuano con facilità attraverso social network, influencer, o retoriche populiste che promettono soluzioni semplici a problemi complessi.
In un simile contesto, la complicità dell’Occidente con i regimi autoritari assume un significato ancora più inquietante: non è solo una scelta politica, ma anche il sintomo di un cedimento culturale. Se non si torna a investire con decisione nell’educazione al pensiero critico e al valore della libertà, il rischio non è solo quello di perdere terreno sul piano internazionale. È quello, ben più grave, di ritrovarsi con una generazione che non saprà più riconoscere l’autoritarismo nemmeno quando lo avrà davanti agli occhi.
