Disobbedire al corpo

In questo sterminato mare di obbedienza, che La Boetie chiamerebbe “Servitù volontaria”, ci sono cavalloni di Vanità nel compiacersi di possedere il vil denaro, onde di dipendenze che definiscono pratiche e modelli di pensiero e piccoli flutti di disobbedienza che increspano le acque qua e là, sulla cui cima soldati della vita si battono per, parafrasando la dottrina epicurea, perseguire piaceri che non deludono.

Secondo Diogene tutti hanno bisogno di padroni

“e chiedendogli l’araldo che cosa sapesse fare, Diogene rispose: comandare agli uomini. Fu allora che egli additò un tale di Corinto che indossava una veste pregiata di porpora, il predetto Seniade, e disse: Vendimi a quest’uomo: ha bisogno di un padrone”  
(Diogene Laerzio, Vite dei Filosofo VI, Vita di Diogene, 32)

Ma Diogene predicò l’autosufficienza e per questo andò ad abitare in una botte; dove sta allora la linea di confine tra la comodità nel seguire il padrone e il desiderio di procedere un passo avanti a lui?

Ci sono dei bisogni che producono disagio che chiameremo desideri non realizzabili, delle pulsioni che determinano una “vita in carriera” in cui il meglio deve sempre ancora avvenire, promesse disattese e mancate che portano a scioperi della fame, della sete, del silenzio, qualunque sia il motivo da cardine c’è sempre il “non poter fare a meno di…”

Gli scioperi non sono altro che l’antipasto della disobbedienza che lo conclude, se ben equilibrato, con un atto di liberazione come dessert.

Mi sono sempre chiesta, però, dove stia la sottile linea tra disobbedienza e performance della società.

Epicuro nella sua lettera alla felicità indirizzata a Meneceo parla di necessità di vita compiuta, di liberazione nell’uomo da tutto ciò che gli impedisce di vivere una vita serena.

Questo però me lo aspetterei in un bigliettino dei baci perugina perché la realtà è molto più cruda di cosi e non si può evitare di osservare il peggio o si rischia di perdere di vista un tratto del viaggio, come se per guardare

il cellulare tu ti perdessi il volo di un gabbiano o peggio non vedessi il palo contro cui andrai a sbattere se non alzerai velocemente lo sguardo.

C’è molto di più nella ricerca della serenità che non può prescindere dal continuo cadere nella dipendenza per ricercarne la liberazione, comprendi il bene se conosci il suo contrario.

La disobbedienza è una rivoluzione.

Si disobbedisce nella religione, nella società, a scuola, si impara fin da piccoli a disobbedire ai genitori, è una buona pratica quella della disobbedienza che ci porta a esprimere sempre di più noi stessi in questo enorme spazio chiamato terra.

Ma ce n’è una che risulta di difficile interpretazione perché rappresenta l’atto finale, quel togliersi dai giochi che non sempre è compatibile con il nostro “Capitalismo ancestrale”, attaccamento alle cose dell’essere umano, il “fine vita” o detto correttamente e medicalmente “Eutanasia”.

D’altra parte anche per Spinoza il processo di liberazione avveniva individualmente attraverso un atto di conoscenza vera e scientifica.

Il conoscere la vera natura delle cose senza inganni e senza finzioni portava per lui ad una libertà che aveva come fine ultimo l’utilità. Quando si chiede: “mi dica la verità” si cerca questa volontà, quella di sentirsi liberi nel prendere la giusta decisione.

E non è lo stesso atto di sincerità che si chiede al dottore quando gli si domanda: “mi dica la verità?”

Compresa la natura della malattia l’atto di volersene liberare non dovrebbe essere una disobbedienza, tutt’altro! Si ubbidisce al proprio volere e si rende atto a sé stessi e agli altri di una incapacità di utilità e di una impossibilità ad una vita serena e armonica.

Montaigne, nel suo saggio “del pentirsi”, non dice forse che ci si può pentire poco se si è vissuti concretamente e in armonia con le proprie volontà e libertà? Nella deliberazione che Hobbes descrive come una bilancia in cui è il piatto più pesante che vince, non dovrebbe forse essere una vita vissuta in qualità piuttosto che una in quantità ad avere la meglio?

Vito Mancuso ci racconta che attraverso i quattro maestri Socrate (educatore) Buddha (medico) Confucio (politico) e Gesù (profeta) possiamo, una volta accettata la vita come caos e tracciata ogni giorno una strada nuova verso un’autentica pace interiore, arrivare al quinto maestro ossia, la nostra coscienza, che ci rende consapevoli di essere noi i creatori della nostra felicità

La creazione è possibile solo attraverso la distruzione…questo lo si vede in ogni singolo evento naturale, quindi la vita è possibile grazie alla morte e viceversa. Le cellule del corpo muoiono per lasciare spazio alla rigenerazione di altre. Noi non siamo mai uguali a noi stessi, siamo in continuo mutamento e la morte rappresenta solo l’atto finale di questo processo e quello che permette allo spettacolo di ritornare sulla scena…l’energia non viene creata né distrutta e cosa altro può fare se non trasformarsi?  Non siamo altro che enormi campi energetici.

Giungo al punto: le cellule ogni giorno attivano un meccanismo di suicidio attraverso delle proteine killer, questa apoptosi avviene milioni di volte al giorno e rappresenta la base della vita cellulare. Siamo in continuo mutamento, un divenire libero ed è questo che permette il respiro, questo eco di “io sono-io non sono”.

Cosi dice lo stesso Mancuso “la legge della vita è strettamente connessa a quella della morte e viceversa”.

Perché rendere impossibile questo naturale processo che già avviene ogni giorno nel nostro corpo solo in funzione di una paura che non ha nulla di coerente con l’accettazione che avviene al primo nostro vagito, ossia che siamo enti destinati al mutamento continuo? Forse si potrebbe obbiettare dicendo che siamo qua involontariamente, ma ne siamo cosi sicuri? Se non siamo neanche in grado di capirci “servi volontari” come possiamo essere certi di essere “viventi involontari”?

Locke fu molto preciso sul punto riguardante il diritto alla felicità, ogni uomo per lui era proprietario della propria vita e di tutto ciò che veniva lavorato con le proprie mani. Mi domando cosa avrebbe pensato riguardo alla proprietà del proprio corpo! Anche il corpo in quanto massimo fruitore di piaceri e dolori godeva della medesima tolleranza per lui?

Fino a dove si sarebbe potuto spingere il concetto di proprietà o meglio possibilità di fare e disfare? Se sono proprietario con marchio registrato della mia vita fin dal primo vagito, anche se in continuo equilibrio imitativo fino alla formazione di un’identità precisa (digressione: ma davvero possiamo pensare in un mondo che ci promette cosi tanti stimoli e nuove invenzioni di poterci accontentare di un’unica identità, quando il gioco di poterne avere molteplici ci stuzzica fino alla fine della strada?) quanto pesa il gesto dell’imitazione degli affetti nelle mie decisioni? Spiego meglio… sono portata ad una liberta x se capito in un dato luogo e in un dato momento, sono portata al contrario se le coordinate cambiano.

Quindi se dipendo dagli altri e dall’ambiente anche la mia disponibilità ad una eventuale liberazione dal dolore non è poi cosi libera come pensiamo. Alla fine è solo un gesto dovuto al caso? E se fosse un gesto non potrebbe essere semplicemente una bella uscita di scena? Potrebbe il suicidio per eutanasia mascherare un modello di uscita di scena da una quinta sconosciuta?

Come un eroe greco o romano che antepone alla propria vita, come fine ultimo, quello di rappresentare con il proprio nome una tra le lettere della parola salvezza, anche solo l’apostrofo della parola libertà; come un soldato delle SS che alla fine nudo nella neve preferiva una morte orgogliosa, perché la partita della fermezza si gioca principalmente nel sopportare con pazienza ogni inconveniente, quando non c’è rimedio, come dice il buon Montaigne, e che l’animo resti granitico; per far si che sia una degna uscita di scena però il grande personaggio ha bisogno di un pubblico, in assenza del quale gli eroi risultano semplicemente assurdi. Quindi se comprendo il motivo di quella “marcia della morte” condivisa tra soldati e sopravvissuti, rispetto a questo la morte per eutanasia non ha nulla a che vedere con quel gesto classicamente eroico che solo un tronfio mitomane con una esagerata opinione di sé potrebbe compiere.

Rimane quindi una sola via d’uscita che parla di un “grido” che se ascoltato e accolto offre la giusta cura, quella non anonima

Perché occorre una cura non anonima dice Lacan che sappia rispondere a quel grido e che lo sappia tradurre in appello, ed è la città e tutti noi che dobbiamo occuparcene.

La cura deve trovare uno spazio in cui ci sia un movimento vitale che produca soggetti capaci di elevare il proprio IO assieme ad un TU e che non siano solo soggetti performativi

Per fare questo serve spazio, serve un vuoto in cui si possa ossigenare la parte satura di noi e che possa successivamente venir riempito da compassione in cui ci si renda conto della propria vulnerabilità tanto quanto quella degli altri.

Quindi no panic and keep a deep breath!

Ricordiamoci bene che il cuore non è solo una protesi ed è più fragile di qualsiasi ingranaggio nella meccanica di un orologio perché spesso non filtra bene le emozioni che rimangono incastrate tra i tessuti, ma è pur sempre mobile e momentaneo.

Concludo con le ultime parole dette poco prima di morire da Piergiorgio Welby: “sono un po’ nervoso…è la prima volta che muoio”

E come ultimo augurio vi grido: Liberi di sorridere fino alla fine

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