Dazi nostri! Come funziona il CBAM, il nuovo dazio europeo sulle importazioni di carbonio

Nel 2023 l’Unione Europea ha introdotto il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), una sorta di “dazio” sulle importazioni di beni provenienti da paesi non UE e che sono privi di politiche climatiche o con legislazioni non comparabili a quelle europee.

Immagine generata con AI, Roberto Milani

In pratica il CBAM aggiusta i prezzi delle merci in base al carbonio emesso per la loro produzione al fine di evitare che i produttori extraeuropei traggano un vantaggio competitivo dalla loro minore attenzione verso una riduzione dell’emissione di CO2.
L’attuazione del CBAM presenta molteplici difficoltà a livello amministrativo e potenziali conseguenze in termini di competitività delle aziende europee con conseguente rischio di delocalizzazione verso altri paesi.

Sull’argomento hanno discusso Carlo Stagnaro e Simona Benedettini.

Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM): cos’è e perché è stato introdotto

Il Carbon Border adjustment mechanism (CBAM) è un meccanismo di aggiustamento dei prezzi del carbonio alle frontiere basato su un calcolo dell’anidride carbonica emessa durante il processo di produzione del bene importato. Adottato nel 2023 dalla commissione Europea, il CBAM è finalizzato a evitare che i paesi extraeuropei possano trarre beneficio da una legislazione sulle emissioni clima alteranti meno stringente di quella vigente in Europa. 
Nonostante in Europa sia già vigente un meccanismo di pricing della CO2 definito “Emissions Trading System”, l’intenzione del CBAM è quella di incrementare la competitività muovendosi all’interno del perimetro di una politica climatica di riduzione delle emissioni climalteranti. Inoltre, il CBAM dovrebbe gradualmente sostituire le politiche di distribuzione gratuita delle quote di emissione, che erano state introdotte proprio per tutelare i produttori europei dalla concorrenza internazionale.

Beni interessati dal CBAM ed attuazione della normativa

Il CBAM interessa solo alcuni beni importati (di solito non sono prodotti finiti ma beni intermedi) per i quali diviene obbligatorio dichiarare le emissioni di anidride carbonica rilasciate durante la loro produzione, lungo l’intera filiera produttiva. Tali emissioni vengono distinte in dirette, cioè legate ai processi industriali e indirette ovvero generate dal consumo dell’energia elettrica impiegata nel processo produttivo il CBAM copre entrambe le emissioni.
Sono previste due fasi di attuazione del CBAM. La prima è detta “fase transitoria”; durerà fino al gennaio 2026 e prevede che le imprese europee operanti in alcuni settori (chimica dei fertilizzanti,  acciaio, ferro, elettricità ad alta intensità carbonica, etc.) producano un report delle emissioni legate alla produzione del bene importato. Tale documento dovrà essere comunicato all’autorità competente che in Italia è il Ministero dell'Ambiente e la sicurezza energetica.
A partire dal 2026 seguirà una “fase a regime” che prevede di associare un valore monetario alle emissioni di anidride carbonica basandosi sulle informazioni precedentemente raccolte. Dal 2026 le imprese europee continueranno a dichiarare le emissioni generate dalla produzione di questi beni in paesi terzi.
In pratica, a ogni tonnellata di CO2 emessa per la produzione di un determinato bene in paesi terzi viene associato un costo, proporzionale a quello del mercato ETS..
La normativa prevede una detrazione dai certificati nel caso di beni prodotti in paesi che prevedono tassazioni basate sul carbon pricing.

Come funziona il sistema della certificazione

Ipotizziamo il caso di un importatore di travi di acciaio (ma potrebbe essere qualsiasi bene interessato dalla normativa).
Il punto chiave è la stima della CO2 che è stata prodotta per la produzione del bene, in questo caso le travi di acciaio. Nel computo rientra la CO2  prodotta dal consumo di elettricità e le eventuali altre fonti emissive durante l’intero processo produttivo avvenuto nel paese terzo esportatore. Il valore dovrà essere diviso per le tonnellate di acciaio prodotte in modo da ottenere un valore unitario che servirà per calcolare l’ammontare di CO2 legato al quantitativo importato.
Pertanto, per arrivare al volume di emissioni prodotte sono necessarie molte informazioni: consumo di elettricità,  tipologia di fonte di approvvigionamento elettrico (acquistata o autoprodotta da recupero, etc.), tipologia di precursori utilizzati (se prodotti all’interno dell’azienda o acquistati da terzi), eventuale produzione di gas di scarto, etc.  Bisogna inoltre indagare se sono stati già applicati strumenti di pricing della CO2 ed il loro prezzo unitario. 
Considerando che frequentemente i processi produttivi interessano più gruppi industriali o catene di approvvigionamento e che alcuni gruppi industriali presentano multiple società (spesso in paesi diversi), si evince che la produzione di un’unica certificazione richiede una coordinazione complessa fra i vari attori e con il rischio di una riduzione dell’accuratezza, anche perché non sempre le informazioni necessarie sono disponibili o verificabili.

Problemi di attuazione del CBAM

La complessità amministrativa e l'effettivo enforcement sono due punti chiave nell’attuazione del CBAM e offrono un esempio della difficoltà dell’Europa di adottare politiche implementabili nella pratica. Infatti, per la stima delle emissioni di anidride carbonica le autorità competenti richiedono una serie di dati molto puntuali che derivano dalla mappatura delle emissioni generate dai processi produttivi degli stabilimenti localizzati in paesi terzi. La mappatura risulta ancora più complessa in caso di processi dislocati in più paesi. Ai fornitori viene pertanto richiesta la raccolta di una notevole mole di informazioni e che potrebbero non essere facilmente fornite in quanto dati sensibili. Inoltre, la mole di informazioni richiede una attività di raccolta dispendiosa e senza un reale ritorno economico e senza incentivi a fornire dati accurati.
Ipotizzando che il processo di raccolta delle informazioni e di stima sia adeguato, rimane comunque l’obbligo di verifica di quanto dichiarato; sorge spontaneo il dubbio sulla reale capacità di enforcement da parte delle autorità europee preposte al controllo a fronte di migliaia e migliaia di dichiarazioni generate.
Infine, mancano degli standard di riferimento per evidenziare possibili incongruenze. Eventuali sanzioni cadrebbero sull’’impresa importatrice, la quale non ha nessun controllo sulla veridicità, correttezza e completezza dei dati forniti dalla ditta estera produttrice.


Possibili effetti del CBAM

Nella prima fase il CBAM impatterà sulle imprese in termini gestionali, organizzativi e per la raccolta delle informazioni. Le conseguenze economiche, invece, si avranno all’avvio della seconda fase prevista per inizio del 2026. 
Gli effetti più probabili del CBAM potrebbero verificarsi in termini di un aumento dei costi gestionali/ organizzativi ed aumento dei costi di produzione. Come riportato dal Financial Times, le prime critiche al CBAM si sono già verificate da parte dell'Industria Europea delle turbine eoliche per la quale potrebbe divenire meno conveniente importare i materiali per la lavorazione e l’assemblamento in europa.
Inoltre, oggi le imprese ad alta intensità di uso dell’energia ed esposte alla concorrenza internazionale ricevono delle quote di CO2 gratuite: in tal modo conservano l’incentivo a ridurre le emissioni (in modo da poter vendere le quote in eccesso) ma, se non possono farlo, non sono svantaggiate rispetto ai concorrenti internazionali. Il CBAM dovrebbe gradualmente sostituire questo meccanismo. In tal modo, e assumendo che tutto funzioni perfettamente, i produttori europei potranno competere ad armi pari coi concorrenti esteri sul mercato europeo: ma sui mercati stranieri non avranno questa possibilità, perché dovranno sostenere dei costi (l’acquisto delle quote di CO2) che non sono richiesti agli altri, senza alcuna forma di compensazione o di tutela. Quindi il CBAM, se anche dovesse funzionare perfettamente sul mercato interno, potrebbe danneggiare duramente gli esportatori. 

Non è da escludere che un ulteriore effetto del CBAM possa essere quindi quello di incentivare le delocalizzazioni dovute all’aumento dei costi implicitamente ed esplicitamente connessi a  questa politica di fatto “protezionistica” che l’Europa sta attuando.
In definitiva, il CBAM rischia di imporre delle condizioni gravose e allo stesso tempo occorrerà anche capire se questa potenziale fonte di svantaggio sarà compensato a livello europeo da altre forme di intervento, come per esempio l’alleggerimento dei costi energetici del comparto energivoro. Non sono da escludere anche degli aggiustamenti dell’impianto normativo. Molto dipenderà dai risultati delle prossime elezioni europee.


Conclusioni

Il CBAM prevede la tassazione di alcuni beni importati da paesi extraeuropei mediante una modulazione dei pagamenti doganali in base alla CO2 prodotta. Il suo fine è di tutelare le aziende e l’economia europea da una competizione sleale legata a politiche non sufficienti in termini di riduzione della produzione di carbonio. Pertanto, il CBAM entra a pieno titolo all’interno della politica europea tesa l’abbattimento delle emissioni di CO2. Tuttavia, il meccanismo di certificazione delle emissioni risulta di difficile attuazione per la notevole quantità di informazioni richieste, per la complessità dei processi di produzione e per la bassa presenza di incentivi al fine di una dichiarazione veritiera delle emissioni. Inoltre, l’applicazione della normativa richiede un investimento economico e prevede eventuali penali a carico delle aziende europee anche in caso di errori di dichiarazioni da parte dei fornitori, generando oneri che potrebbero portare ad azioni di bail-out o delocalizzazione. In definitiva, se il CBAM appare sulla carta come un lodevole tentativo di contrasto alle emissioni di anidride carbonica, all’atto pratico si dimostra un’azione di politica energetica onerosa e con potenziali effetti negativi sull’ecosistema produttivo europeo tale da suggerirne una rimodulazione o quantomeno una discussione.

 

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