11 SETTEMBRE 20 ANNI DOPO: CHE RIFLESSIONI NE TRAIAMO?

Questo settembre sono passati 20 anni dall'attentato dell'11 settembre, uno spartiacque nella storia dell'Occidente.
Il terrorismo ha rimesso al centro il tema della sicurezza, dando vita alla c.d. società della paura. Ma è solo questo l'effetto dell'11 settembre? Cosa sappiamo veramente del terrorismo e come ci ha cambiato? Quali nostri debolezze ha mostrato? Queste sono le domande (più o meno esplicite) al centro della live sull'anniversario.

L’11 settembre 2001 è il punto di inizio – se lo si può considerar tale – di una nuova fase della nostra storia, con una portata pari forse ad altri eventi come potrebbe essere considerato tale l’attentato di Sarajevo del 1914 giusto per rimanere in tema di conflitti.

Accettando però tale visione dell’evento, si deve allora aprire una riflessione sul come si è arrivati ad esso e quali cambiamenti abbia scatenato, un tema tutt’altro che facile e che è stato oggetto della live

dello scorso 11 settembre di Michele Boldrin, Costantino de Blasi, i fratelli Gilli e Dino Parrano, una complessità che decorre dalla stessa comprensione del fenomeno terroristico.

Riflessioni sul terrorismo (1): di che stiamo parlando?
Ragionare sul prima e il dopo di un evento è la via maestra con cui si cerca di capire la portata di un evento e il suo impatto sulla realtà.

Il dibattito prima dell’11 settembre era interamente focalizzato sulla globalizzazione, specialmente a seguito delle vicende del G8 di Genova.

La questione della sicurezza dopo la fine della Guerra Fredda era divenuta ormai marginale nel dibattito occidentale, nonostante situazioni come quelle di Timor Est, del Ruanda piuttosto che della guerra in Jugoslavia; il focus di allora era la nuova fase della globalizzazione e il come mantenersi competitivi nel c.d. nuovo villaggio globale.

L’attacco ha stravolto il dibattito, riallocando la rilevanza degli argomenti e senza però escludere quanto si discuteva prima, anzi: molti erano (e sono tutt’ora) convinti che la globalizzazione sia stata causa del terrorismo tramite la povertà che essa stessa avrebbe generato.

Un tale collegamento è stato oggetto di molteplici studi e lo si può trovare in libri come “The End of Poverty: Economic Possibilities for Our Time” (Sachs, 2005 – prima pagina dell’introduzione), spingendo alcuni a concludere che il terrorismo sia l’arma dei poveri e degli sbandati, se non fosse che tale tesi è tutt’altro che corretta.

L’11 settembre ha dimostrato quanto ben poco comprendessimo il fenomeno del terrorismo, una realtà estremamente complessa (sia a livello di individuo che di organizzazione), multifase, con molteplici radici, forti dinamiche interne ed evoluzioni di cui la stessa Al-Qaeda è stata originatrice.

Il terrorismo è il perseguimento di obiettivi politici da parte di chi non ha mezzi militari per combattere in modo diretto; l’11 settembre rispecchia a pieno tale definizione in quanto evento:

  • organizzato da soggetti che vedevano negli Stati Uniti e/o Israele i responsabili della propria situazione socio-economica;
  • con cui si è cercato di portare la guerra in casa di chi non la vedeva da anni, agendo per vie non tradizionali perché privo di mezzi (e anche ad averli avuti, avrebbero fatto la fine dell’Iraq di Saddam nel ’91 data la disparità).

L’inadeguatezza della povertà come causa originatrice del terrorismo è già stata dimostrata anni fa da persone come Krueger o Gambietta.

Partendo dall’economista, nel suo libro “Terroristi, perché. Le cause economiche e politiche” (2009) ci segnala che le persone che si uniscono ai gruppi terroristici hanno caratteristiche sociali ed economiche ben precise: sono alienati sociali con un livello di istruzione più alto della media e una famiglia sopra alla media che trovano nella lotta di gruppo la via per ottenere quella riconoscenza sociale negatagli dal contesto in cui vivono/lavorano.

Una tale mancanza di base sociale è emersa nella biografia dei membri di organizzazioni come le Brigate Rosse, piuttosto che degli attentatori del Bataclan, una realtà che viene confermata dagli studi del sociologo Gambietta, da cui emergono come:

  • il terrorismo nel mondo musulmano abbia trovato terreno fertile nell’élite, specialmente nei laureati in ingegneria;
  • in Europa – invece – la maggioranza è dagli ambienti della piccola criminalità, dei disoccupati e disadattati (solo il 20% avrebbero una buona istruzione);
  • i laureati in ingegneria sono quasi sempre in ruoli di gestione/fondazione dell’organizzazione, sostenuti da una gloriosa visione del passato incompatibile con il mondo occidentale (8 degli attentatori dell’11 settembre erano ingegneri).

A ciò si aggiunge poi un altro passaggio fondamentale: il terrorismo non è una cosa improvvisata.

Per avere un’organizzazione sono 3 gli elementi necessari:

  • un modello interpretativo del mondo (ideologia);
  • degli atti che vengono percepiti come aggressione ingiustificata;
  • pianificatori e risorse;

ergo è necessaria un’iniziale condizione oggettiva fonte di infelicità per qualcuno, a cui segue la fase più complessa del reclutamento (serve qualcuno disposto al sacrificio) che diventa più facile solamente a seguito dell’azione terroristica (dagli attentati al controllo del territorio) grazie a fattori quali l’emulazione o il senso di opportunità.

Tuttavia, questo apre una seconda riflessione sul terrorismo: la sua natura.

Riflessioni sul terrorismo (1): natura
Il terrorismo una volta era un fenomeno di natura interna, ma sono ormai diversi decenni che ha assunto più una dinamica di guerra, di fenomeno d’origine esterna al proprio paese e ha fondamento essenziale nell’uso del sistema di informazione ed educazione, al di là delle strategie di tipo asimmetrico.

Quest’ultimo punto è tanto importante, quanto di per sé quasi scontato.

Se il terrorismo è infatti l’arma di chi non ha i mezzi per una c.d. guerra convenzionale, questa non è altro che la definizione di guerra asimmetrica (conflitto non dichiarato con notevole disparità di status e risorse tra le parti), un concetto che sostanzialmente esiste da secoli (si pensi per esempio ai conflitti coloniali), ma che formalmente è entrato nella dottrina militare statunitense solamente nel 1997, durante il dibattito degli anni ’90 sulle politiche militari americane e fatto proprio dai cinesi visti sia gli insegnamenti di Sun Tsu che il libro Guerra senza limiti dei colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui.

E attenzione a non commettere l’errore concettuale di contrappore la guerra convenzionale a quella non convenzionale, come ci segnala Stephen Biddle nel suo Nostate warfare: queste sono due facce della stessa medaglia.

È la natura stessa della guerra il cercare di colpire il nemico nelle sue debolezze: l’asimmetria è una costante di tutti i conflitti. Ma allora qual è la differenza tra i due? E in che cosa si è distinta Al-Qaeda e Bin Laden, definito dai sopracitati cinesi come l’interprete più efficace di questo tipo di guerra?

Partendo dal primo punto, il principio di fondo di una qualsiasi azione militare è che essa è un problema di azione collettiva: un gruppo di soldati combatte perché ogni suo membro sa di poter contare sui propri commilitoni. Se viene meno ciò, viene meno tutto.

Nel caso dei gruppi non statuali come i terroristi, si cerca di aggirare tale problema – puntando quindi a combattere come un esercito – tramite una comune ideologia socio-politica; di ciò gli Hezbollah libanesi sono un esempio lampante. Gli attacchi individuali – invece – li si hanno quando queste organizzazioni sono prive di tale elemento.

Passando al secondo punto, ancora una volta entra in campo il contributo dell’innovazione tecnologica: il nuovo mondo dell’informazione consente una maggiore possibilità di emulazione.

Negli ultimi anni abbiamo visto il fenomeno dei foreign fighters, del reclutamento degli emarginati in rete; nell’attacco alle Torri Gemelle lo schianto degli aerei non è stato in contemporanea, bensì in successione, in modo da poter attirare le televisioni e ottenere così il massimo effetto.

Infine, un’altra caratteristica fondamentale delle organizzazioni terroristiche è la forte gerarchizzazione, aspetto che si collega a quanto detto supra su chi si unisce a tali organizzazioni: una realtà in cui le persone tornano a sentirsi parte di qualcosa, specialmente i capi che dal loro ruolo hanno potere, rispetto, prestigio ecc, a fronte di una causa comune.

Perdere quest’ultima, li farebbe tornare al punto di partenza ed è per questo che si è soliti osservare un cambio di obiettivo delle stesse organizzazioni, seppur in molti casi (come l’ETA dopo la morte di Franco o i partigiani) siano rimasti in pochi; la stessa Al Qaeda di per sé conferma ciò: dopo la fine della lotta contro l’URSS, il grosso dei mujaheddin ha smesso di combattere e in pochi cambiarono l’obiettivo verso l’ex “alleato” statunitense.

E ciò, ci porta a un’altra domanda: l’11 settembre è figlio della politica estera degli USA?

Quanta responsabilità americana ci sta dietro l’attacco dell’11 settembre?
Organizzazioni fortemente gerarchizzate, individui legali da repulsione sociale e autoalimentazione interna, nate spesso con finalità di lotta (ad un’occupazione, una dittatura, etnica ecc), ma una volta che questa è stata raggiunta, la lotta armata passa da mezzo a fine perché si cerca un’altra motivazione per combattere, anche contro chi avevi al fianco fin prima come proprio è il caso di Al-Qaeda.

Al-Qaeda nasce da una scissione del Maktab al-Khidamat alla fine della guerra con i sovietici (1988), sulla base di una diversa visione di Bin Laden della lotta e i principi di base dell’organizzazione.

Il cambio di direzione verso gli Stati Uniti si ebbe durante la Prima Guerra del Golfo, quando la monarchia saudita respinse l’offerta di Bin Laden di difendere il Regno con la sua legione araba, respingendo così l’aiuto non musulmano degli States.

Ed è proprio per questo che allora ci possiamo chiedere: gli attacchi subiti dagli Stati Uniti sono una conseguenza della loro politica estera?

I complottisti danno molto addito all’idea che l’attacco sia stato in realtà autoinflitto in modo da aver così una giustificazione per un attacco militare (internazionalmente approvato) in Iraq e Afghanistan, su falsariga delle teorie complottistiche dietro l’attacco di Pearl Harbour.

Ma tralasciando tali insensatezze, l’idea della responsabilità statunitense non è meramente dei complottisti, anzi: tra i suoi principali sostenitori troviamo accademici del calibro di Chmosky, secondo cui l’attacco sarebbe il risultato delle politiche imperialistiche degli Stati Uniti in America Latina e Medio Oriente.

La stessa gestione della c.d. lotta al terrorismo sarebbe stata a suo avviso completamente sbagliata: al posto di agire come in un’operazione di polizia (cercando gli individui come si farebbe con la mafia), si è scelto di agire come una vera e propria guerra etica-religiosa.

Di per sé non possiamo non riconoscere come l’intervento statale abbia sempre degli effetti indesiderati; la stessa politica estera occidentale post II GM ha generato dei spillover effects di lunghissimo termine con il risultato di alimentare il malessere tra i gruppi.

Tuttavia non possiamo però al contempo commettere l’errore di pensare alle politiche estere USA come unica causa dietro agli attacchi.

Questi sono fenomeni estremamente complessi: i fattori da considerare sono tanti. Dal malessere sociale di quei territori, ai gruppi di interesse, all’ideologia islamica a cui appunto si sono aggiunti soldi e armi, finendo con l’avere la creazione di gruppi terroristici disposti al sacrificio estremo pur di colpire il grande nemico.

Nella sopracitata analisi di Kruger si è di fatto ragionato molto a livello di motivazione individuale, ma a ciò va poi aggiunta la complessità delle interazioni di gruppo, al che si aggiunge la loro evoluzione post 11 settembre: l’attacco è stato un enorme risultato per i terroristi, con il conseguente generarsi di un effetto immolazione: perché se questi ce l’hanno fatta, allora noi non possiamo riuscirci?

E attenzione a quest’ulteriore nota: ragionare sulle cause degli attacchi, non significa cercare di darne una giustificazione morale.

In Italia soffriamo di una pesantissima corruzione metodologica: non siamo capaci di ragionare senza distinguere tra ricerca e giudizio, tra constatazione fattuale e morale, una degenerazione dell’agire che ha avuto piena manifestazione con le Torri, dimostrando quanto siano limitati i nostri “intellettuali” e “giornalisti”, evidenziando la natura di first moover del nostro paesenelle teorie cospirazioniste, una realtà in cui l’informazione è stata sacrificata sul piano dell’avanspettacolo.

Come dimenticarsi il caso di Santoro che chiese a Luvack come era possibile che un aereo potesse volare sopra il Pentagono, quando è risaputo che li vicino ci sta l’aeroporto Reagan? È come chiedere come sia stato possibile che un treno sia caduto nella laguna di Venezia senza essersi prima informati del fatto che Venezia ha un collegamento ferroviario con la terraferma.

O che dire del complottismo di Giulietto Chiesa?

Un pressapochismo tutt’altro che concedibile su un tema come quello del terrorismo.

 

Conclusioni: l’11 settembre, Al-Qaeda sono spartiacque nella nostra storia
L’attacco alle Torri (e agli altri tre simboli degli Stati Uniti) ha dato vita alla c.d. società della paura, riportando il tema della sicurezza al centro del dibattito, con tutte le sue conseguenze sul piano militare, sociale ed economico.

Se guardiamo al primo, al di là dei nuovi protocolli di sicurezza nei viaggi, si pensi per esempio ai soli attacchi mirati piuttosto che ai droni.

La guerra del Kosovo – giusto per darne un’idea – ha dimostrato l’enorme ritardo tecnologico dei paesi europei rispetto agli Stati Uniti, i quali si erano evoluti non poco rispetto all’antecedente guerra del Golfo, ove la maggioranza delle bombe erano “stupide” (si cercava di centrare il bersaglio meglio che si poteva). I droni, invece, sono un’evoluzione nella lotta al terrorismo, specie dopo gli attacchi missilistici con cui si è cercato di eliminare Bin Laden: la loro lentezza a fronte della necessità di decisioni rapide e bersagli mobili ha spinto a un cambiamento di strategia.

La scelta di armare i droni negli anni ’90 è una reazione ad Al Qaeda, il quale è stato responsabile altresì di un mutamento delle politiche USA non noto ai più: non vi siete mai chiesti perché non si sia cercato di uccidere Bin Laden prima dell’11 settembre?

Nel febbraio del 1976 il presidente Ford – a seguito delle indiscrezioni sui tentativi della CIA di uccidere Castro durante gli anni ’60 – promulgò un Ordine Esecutivo (11905) col quale veniva vietato a qualunque membro del governo degli Stati Uniti di impegnarsi (o cospirare in tal senso) in qualsiasi attività di assassinio politico in qualsiasi parte del mondo, ordine a cui seguirono uno di Carter (1978) e di Reagan (1981).

Seppur privi di precisa definizione di assassinio (anche se il messaggio al Congresso di Ford allegato all’ordine facesse ritenere che il divieto fosse relativo al solo tempo di pace) e non ostacoli tali da impedire il bombardamento della residenza di Gheddafi (1986) o l’attacco missilistico contro i campi di addestramento in Afghanistan (1998), fu solo dopo le Torri che il Congresso autorizzò Bush a usare

tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che determina hanno pianificato, autorizzato, commesso o aiutato gli attacchi terroristici" (fermo restando che Clinton aveva già autorizzato l’uso nascosto della forza letale contro diversi membri di alto livello di Al-Qaeda).

Cambiamenti importanti, secondi soli ai tanti effetti sociali ed economici, impossibili da vagliare in un solo articolo (o diretta che sia), a meno che non si voglia fare un mero elenco.

Solo per darvene un’idea, pensate all’impatto del terrorismo sul mondo assicurativo, piuttosto che alla crisi economica del 2008: evento esemplare dell’impatto delle politiche scellerate di uno stato quando esso pretende di corrompere la politica di gestione dei prestiti e il sistema finanziario con le politiche monetarie espansive, quanti si ricordano che proprio quest’ultime iniziarono dopo l’11 settembre quanto Greenspan – anche su scia della recente crisi delle Dot com – si inventò la necessità di inondare il mercato di moneta, con tutte le conseguenze che abbiamo vissuto?

Ma questo è un’altra storia che merita una sua spiegazione a parte.

Indietro
  • Condividi