Esame di maturità sì o no

Come ogni anno a luglio, il Ministero dell’Istruzione ha pubblicato i dati relativi agli esiti dell’Esame di Stato del II ciclo e, puntuali, sono scoppiate le polemiche su un esame che da molti è visto come inutile in quanto promuove il 99,9% degli studenti che lo sostengono.

Non si tratta di una critica nuova. Nel 1972[1], subito dopo una delle tante riforme della maturità che aveva dimezzato il numero di scritti (da quattro a due) e semplificato l’orale riducendo a due, su una rosa di quattro, le materie da preparare, un preside commentava così: «La regola che si è venuta instaurando da quattro anni è quella di un facilismo deteriore e deteriorante. Così si preparano pletore di semianalfabeti. Ce ne accorgeremo quando usciranno dall’Università[2]».

Da allora la normativa che regola l’Esame di Stato è cambiata diverse volte, anche per venire incontro al mutamento della scuola e della società, ma possiamo individuare almeno tre problemi che caratterizzano l’Esame di Stato nella sua forma attuale e che ne pregiudicano la validità.

Il primo, il cui sintomo è la mancata selettività che osserviamo, sta non tanto nella facilità dell’Esame in sé, ma nel fatto che sia pensato non come prova certificativa finale e separata, ma come parte integrante del percorso quinquennale, tanto che il suo mancato superamento comporta la ripetenza della classe quinta.

A livello strutturale la cosa si percepisce nel modo con cui viene formato il voto di diploma, che per 40 punti su 100 dipende dalla media del triennio finale del corso di studi[3] e solo per 60 punti dalle tre prove di esame, tutte in ventesimi. Questo comporta che il punteggio minimo di accesso all’esame è di 27 punti (8 in terza, 9 in quarta e 10 in quinta[4]) e per raggiungere il 60 è sufficiente mantenere una media di 11/20 nelle tre prove, cioè un cinque e mezzo.

La selezione, quindi, non avviene al quinto anno, ma negli anni precedenti, specialmente durante il primo biennio. In quinta, a meno di situazioni eccezionali e marginali, i Consigli di classe ammettono all’Esame anche i candidati con diverse lacune, accompagnandoli poi alla fine del percorso con una bassa votazione.

Il secondo problema è la mancata omogeneità delle Commissioni nell’attribuzione dei voti, specialmente per quanto riguarda la votazione massima. Questo si traduce in un ribaltamento dei risultati rispetto a quanto registrato da tutte le rilevazioni nazionali e internazionali, anche quelle svolte dagli stessi alunni solo poche settimane prima.  

Il fenomeno si è acuito negli ultimi tre anni, in cui le Commissioni sono state composte da sei membri interni e un Presidente esterno, ma era evidente già da tempo[5], anche se con differenze meno marcate[6].

Senza andare ad analizzare nel dettaglio cause e spiegazioni di questo fenomeno, in questa sede è sufficiente evidenziare che se in una certa regione uno studente su cinque ottiene la votazione massima (e quasi 2 su cinque un voto superiore a 90), viene sicuramente a mancare l’effetto segnalazione del voto, che dovrebbe permettere a un soggetto esterno di capire chi è effettivamente un’eccellenza e chi no.

Ad avvantaggiarsene sono soprattutto gli studenti bravi, ma non eccellenti, delle aree più generose, che così, grazie alla votazione massima ottenuta, raggiungono posizioni migliori nelle graduatorie di ammissione alle università a numero chiuso, e ottengono un accesso più facile alle borse di studio, oltre che il prestigio, personale e famigliare, associato a quella votazione.

A essere penalizzate sono, invece, le eccellenze vere, che non possono utilizzare il voto di diploma come meccanismo di segnalazione esterna e che si trovano a ottenere condizioni peggiori e borse di studio più basse rispetto a quelle di cui avrebbero usufruito in un contesto diverso. A titolo di esempio, una misura che era stata pensata nel 2007 per premiare le eccellenze, e cioè il bonus di 1.000€ per i circa 3.500 studenti che quell’anno avevano ottenuto la lode, si è trasformata in una farsa. I 15.353 “super maturi” dell’anno scorso sono stati premiati, infatti, con ben solo 90 euro a testa.

In generale, e vengo al terzo punto, è proprio il diploma che, come titolo, ne esce svilito, tanto da trasformarlo in un pezzo di carta il cui valore legale residuo è quello di permettere l’accesso alle università e a qualche concorso pubblico.

Venendo alla pars costruens, è possibile ripensare l’Esame di Stato oppure è semplicemente da abolire?

Credo che per rispondere a questa domanda sia prima necessario interrogarsi su quali siano gli obiettivi che vogliamo raggiungere.

Se pensiamo alla maturità semplicemente come “rito di passaggio” che sancisca la fine del secondo ciclo di istruzione, senza preoccuparci degli aspetti certificativi, ritengo che potremmo risolvere il tutto con la discussione di un project work realizzato nelle materie caratterizzanti l’indirizzo, in maniera non troppo diverso da quanto previsto per l’esame del 2020/21. Potrebbe trattarsi di qualcosa simile a alla discussione della tesi di laurea al termine del percorso universitario, occasione nella quale nessuno si scandalizza se non vi sono bocciati.

Se, invece, pensiamo che l’Esame di Stato debba portare alla certificazione delle competenze effettivamente possedute, in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, e che questa possa fungere da veicolo di segnalazione verso l'esterno, allora l’Esame dovrebbe avere le seguenti caratteristiche:

  1. essere una procedura distinta rispetto alla conclusione del percorso della scuola secondaria di II grado. Il mancato superamento dell’Esame, cioè, non dovrebbe portare alla ripetenza della classe quinta;
  2. essere ripetibile in sessioni periodiche (almeno semestrali) in modo da permettere a chi non ha raggiunto la certificazione desiderata di prepararsi e ritentare;
  3. essere aperto a tutti gli studenti che stanno frequentando il quinto anno delle scuole secondarie di II grado e a tutti quelli che hanno già terminato il percorso;
  4. essere gestito da Commissioni in gran parte esterne alla scuola e organizzate sul territorio nazionale, in modo da garantire omogeneità di valutazione[7];
  5. rilasciare certificazioni valide e riconosciute anche all’estero, sulla falsa riga di quelle linguistiche;
  6. riguardare alcune materie obbligatorie (italiano, matematica, inglese) più altre opzionali scelte dallo studente;
  7. essere utilizzato dalle università per la costruzione delle graduatorie di ammissione.

Un esame che avesse queste caratteristiche, che se vogliamo può ricordare gli A-Level del Regno Unito, potrebbe tornare a dare un senso a un Esame che oggi è diventato oramai solo più una ricorrenza per ricordarci che nel dibattito pubblico esiste anche la scuola.

NOTE

[1] Granata, Clemente, “Esame di maturità? Necessario abolirlo”, La Stampa del 2 agosto 1972, p.5

[2] Quell’esame di maturità, introdotto dalla riforma di Fiorentino Sullo, è stato in vigore dal 1969 al 1998 e ha, quindi, interessato tutti i nati dal 1950 al 1979. Curiosamente in questa fascia di età si concentrano quasi tutti i critici dell’esame attuale, ritenuto troppo facile.

[3] Si tratta dei pesi assegnati dal D.Lgs. 13 aprile 2017 n.62. Nel 2020 e nel 2021, in cui a causa del Covid l’unica prova di esame è stata il colloquio, la media del triennio pesava per 60 punti su 100, mentre nel 2022 ha pesato per il 50 per cento.

[4] D.lgs 13 aprile 2017 n.62, Allegato A

[5] L’avevo già evidenziata su Noise from Amerika in un articolo del 2016 dal titolo “Perché gli studenti del Sud ottengono voti più alti alla maturità?

[6] L’Indagine campionaria sui risultati della maturità 1998 evidenziava come avesse ottenuto la votazione massima, nelle regioni del sud, il 6,2% dei candidati, contro una media nazionale del 5,6%. La differenza maggiore si registrava al Liceo Classico (13,3% contro 10%), https://archivio.pubblica.istruzione.it/news/1998/ne98046.shtml

[7] Non a caso l’impostazione originale degli Esami di maturità prevedeva una Commissione totalmente esterna e formata anche da professori universitari e persone estranee all’insegnamento.

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