Nel maggio del 1970 Lelio Luttazzi, celebre musicista e conduttore radiofonico, viene arrestato a Roma con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti. La perquisizione non porta a nulla, ma Luttazzi resta in carcere per 27 giorni, in isolamento. Sarà completamente scagionato, ma la sua carriera non tornerà più quella di prima.
Lelio Luttazzi è stato uno dei più grandi protagonisti dello spettacolo italiano. Musicista, compositore, conduttore radiofonico e televisivo, attore, autore. Una carriera brillante, costruita negli anni ’50 e ’60, culminata con il grande successo della trasmissione “Hit Parade”.
Ma nel giugno del 1970, la vita e la carriera di Luttazzi vengono interrotte…
Nel maggio del 1970 Lelio Luttazzi, celebre musicista e conduttore radiofonico, viene arrestato a Roma con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti. La perquisizione non porta a nulla, ma Luttazzi resta in carcere per 27 giorni, in isolamento. Sarà completamente scagionato, ma la sua carriera non tornerà più quella di prima.
Lelio Luttazzi è stato uno dei più grandi protagonisti dello spettacolo italiano. Musicista, compositore, conduttore radiofonico e televisivo, attore, autore. Una carriera brillante, costruita negli anni ’50 e ’60, culminata con il grande successo della trasmissione “Hit Parade”.
Ma nel giugno del 1970, la vita e la carriera di Luttazzi vengono interrotte bruscamente da un’accusa pesante: detenzione e spaccio di stupefacenti. Un’accusa infondata, che lo porterà a passare 27 giorni in carcere da innocente.
Questo è il racconto di quella vicenda.
Lelio
Lungo la sua carriera, Lelio Luttazzi è stato molto più di un semplice musicista. Cantante, compositore, direttore d'orchestra, attore e presentatore tv. Nato a Trieste il 27 aprile 1923, cresce vicino al mare, nella piccola frazione di Prosecco. È proprio grazie al parroco del paese che Lelio si avvicina al pianoforte.
Da quel momento la musica non lo lascerà più. Studia al Liceo Petrarca, a Trieste, dove stringe amicizia con Sergio Fonda Savio, nipote di Italo Svevo. Si iscrive poi alla facoltà di Giurisprudenza, ma la passione per la musica lo travolge. Durante la guerra inizia a suonare a Radio Trieste e scrive le sue prime canzoni.
Nel 1943 accade qualcosa che cambierà tutto: si esibisce al Politeama di Trieste e colpisce il celebre cantante Ernesto Bonino. Bonino gli commissiona una canzone. Lelio scrive “Il giovanotto matto” e la canzone diventa un successo nazionale. Da lì in poi, la sua carriera decolla: Milano, la CGD, Teddy Reno, la RAI. Firma brani storici come Una zebra a pois, Vecchia America, You'll Say Tomorrow.
Conduce programmi come Studio 1, con Mina, e Hit Parade, una delle trasmissioni radiofoniche più amate dagli italiani. Luttazzi diventa una figura centrale della televisione e della musica italiana. Tutto sembra andare a gonfie vele.
L’arresto
Ma la mattina del 22 maggio 1970 a casa di Lelio Luttazzi, a Roma, in piazza Trevi, suonano alla porta alcuni uomini della polizia. Passano al setaccio ogni stanza, controllano cassetti, armadi, scaffali, senza trovare nulla di rilevante. Nonostante questo, chiedono a Luttazzi di seguirli in caserma per accertamenti.
Fino a quel momento, Lelio non sospetta nulla. È certo che si tratti di un errore. Ma quando gli scattano le foto segnaletiche e gli prendono le impronte digitali, capisce che qualcosa di molto serio lo sta coinvolgendo. Viene lasciato su una sedia per un’intera notte, senza informazioni. Solo il giorno dopo, durante il primo interrogatorio, il sostituto procuratore Francesco Fratta gli comunica l’accusa: detenzione e spaccio di stupefacenti. Lelio Luttazzi viene arrestato e trasferito nel carcere di Regina Coeli.
La prigionia
A Regina Coeli, Luttazzi viene rinchiuso in una cella di isolamento: tre metri per uno e mezzo. Rimane in completo isolamento per giorni, senza sapere in modo preciso quali siano le prove contro di lui. Le lettere che riesce a scrivere vengono controllate dalla censura. Non gli è permesso comunicare liberamente con l’esterno. Potrà incontrare il suo avvocato solo dopo quindici giorni.
L’accusa si basa su una telefonata. Due mesi prima, Walter Chiari – amico di lunga data e noto attore – aveva chiamato a casa di Luttazzi. Era a Bologna e gli aveva lasciato un numero da contattare. Luttazzi, senza conoscerne la natura, aveva semplicemente richiamato quel numero. Luttazzi aveva risposto: “Ma lei ha bisogno di qualcosa?”, e aveva chiuso la conversazione. Si saprà in seguito che dall’altra parte della linea c’era un intermediario collegato a un giro di spaccio.
Quella telefonata, estrapolata e mal interpretata dagli inquirenti, viene considerata una prova. Nonostante non ci fosse alcun riscontro materiale, né droga, né testimonianze contro di lui, Luttazzi è trattenuto in custodia cautelare per ventisette giorni.
La scarcerazione
Il 18 giugno 1970, il giudice istruttore Renato Squillante esamina il fascicolo e ordina la scarcerazione immediata di Lelio Luttazzi per totale assenza di prove. Luttazzi viene liberato il 20 giugno. L’indagine prosegue separatamente per Walter Chiari.
Luttazzi è un uomo libero. Ma la macchina del fango si è già mossa. Oltretutto Lelio è un personaggio famoso, la notizia dell'arresto è ancora più succulenta. E infatti i giornali riportano la vicenda a caratteri cubitali: nei giorni dell’arresto, i giornali titolano con frasi sensazionalistiche accostando Luttazzi a Chiari e alla “droga nello spettacolo”, senza distinguere le circostanze e senza riscontri di prove. La sua trasmissione, Hit Parade, nel frattempo viene affidata a Renzo Arbore e Giancarlo Guardabassi.
Nonostante il riconoscimento della sua totale estraneità rispetto alle accuse di cui era stato oggetto, nonostante Luttazzi nel 1971 torni a condurre Hit Parade, niente è come prima, la vicenda rimane un’ombra difficile da cancellare. Il danno d’immagine è comunque enorme. Luttazzi si allontana progressivamente dalla televisione e dalla radio. Continua a lavorare, ma con ritmi e spazi ridotti. Sceglie di restare in silenzio anche su Walter Chiari, che verrà condannato per detenzione personale, ma la pena verrà ridotta grazie alla legge sulla modica quantità. Solo vent’anni dopo dichiarerà: “Non alzò un dito per scagionarmi, anzi abbinò i nostri due nomi come vittime della stessa ingiustizia. In nome del vecchio affetto tacqui, ma da allora non l’ho più voluto vedere.”
Dopo il carcere
Luttazzi decide di raccontare la propria esperienza attraverso un libro, “Operazione Montecristo”, scritto durante i giorni di detenzione. Realizza anche un film, "L'illazione", che, attraverso una sorta di processo kafkiano, porta a una seria riflessione sulla superficialità con cui la giustizia può commettere errori gravi e sulle conseguenze devastanti per chi li subisce.
Per il resto della sua vita, Luttazzi proseguirà una battaglia civile fatta di cause vinte contro stampa e media, con risarcimenti minimi simbolici, e lotterà sempre contro le inesattezze che ancora si ripeteranno sui giornali, che quando parleranno di lui non rinunceranno ad associarlo alla vecchia inchiesta, che così continuerà a perseguitarlo. 27 giorni in carcere a qualcuno potranno sembrare relativamente pochi rispetto ad altri casi di ingiusta detenzione, ma per Luttazzi quel mese scarso ha pesato su tutta la sua vita a venire. Lo vedremo su un palco per l'ultima volta al Festival di Sanremo del 2009, quando accompagnerà al pianoforte Arisa, allora debuttante alla kermesse canora.
Dopo la sua morte, avvenuta nel 2010, le sue battaglie verranno portate avanti dalla moglie, Rossana Luttazzi, che oggi in memoria del marito preserva e valorizza il patrimonio artistico e umano di Luttazzi, supporta giovani musicisti (in particolare pianisti jazz), e promuove eventi culturali tramite l'omonima fondazione e che, nel giugno del 2014, decide di scrivere una lunga lettera a Il Giornale per cercare di far capire come ci si sente, che cosa significa essere “dalla parte sbagliata della notizia”.
La lettera di Rossana
“Egregio direttore, da qualche giorno leggiamo sulle prime pagine dei quotidiani e ascoltiamo nelle varie edizioni dei telegiornali nomi e cognomi di persone coinvolte con accuse pesantissime in casi di corruzione. «Testimoni chiave» che riempiono pagine e pagine di verbali, che, grazie alle loro testimonianze, raccontano, citano fatti, e quello ha detto, e quello ha telefonato, e quello ha chiesto somme, quell’altro ha chiesto favori, e la stampa spara nel mucchio. Non parliamo poi dei tanti talk-show ai quali partecipano con solerzia giornalisti di tutte le razze. Anche se non viene configurato né ipotizzato alcun reato, giù a fare nomi, accuse, insinuazioni, spesso con arroganza e presunzione. Non occorre essere indagati, il che non giustificherebbe comunque l’essere «sbattuti in prima pagina», ma è sufficiente che il tuo nome sia citato nei verbali di tutti questi signori e signore che tanto hanno da raccontare, per non parlare poi delle intercettazioni telefoniche, per «venire sputtanati».
E veniamo ai giudici. Finalmente la Camera dice sì alla responsabilità civile delle toghe. Era ora! Ma la votazione causa polemiche e preoccupazioni. L’Anm è sul piede di guerra e il vicepresidente del Csm pure: «È in gioco l’indipendenza di giudizio del magistrato, esporlo a un’azione diretta di responsabilità metterebbe a repentaglio il suo libero convincimento e produrrebbe un numero indefinito di processi su processi». Ma pensa!
Da sempre, invece, i magistrati, seguendo il «loro libero convincimento», hanno coinvolto e continuano a coinvolgere nelle loro inchieste persone risultate poi innocenti. E che sarà mai! È giusto così? Secondo me non è affatto giusto così, è semplicemente vergognoso.
E posso dirlo con convinzione di causa. Sono trascorsi ben quarantaquattro anni da quando sbatterono «il mostro in prima pagina». Quel «mostro» era mio marito: Lelio Luttazzi. Un semplice errore di un magistrato, ma quell’ERRORE rovinò la vita di Lelio. Preso e sbattuto a Regina Coeli in cella d’isolamento in compagnia del «buiolo» senza sapere il perché… Sì, perché allora un pubblico ministero poteva decidere se e quando farti incontrare il tuo avvocato. A Lelio, bontà loro, lo permisero dopo quindici giorni.
Lo scrittore Giuseppe Berto nella prefazione del libro «Operazione Montecristo» (libro scritto in galera da Lelio Luttazzi durante quei 27 giorni d’inferno) scrive: «Noi siamo esposti alle offese di coloro che dovrebbero tutelarci dalle offese. È una generalizzazione necessaria, perché di pubblici ministeri come il tuo in Italia ce ne sono a centinaia. Su certe questioni noi siamo abituati a ragionare con le lettere maiuscole. Diciamo lo Stato, la Giustizia, la Magistratura. Lo facciamo per viltà, perché è faticoso rinunciare alla protezione degli dei, costatare che le Istituzioni più sacre – così si dicevaun tempo – sono fatte da uomini che molto spesso sono peggiori di noi. Ma la questione di fondo rimane, ed è questa: due uomini che fanno lo stesso mestiere, usando gli stessi strumenti messi a loro disposizione dal sistema e valutando gli stessi elementi, ti trovano uno delinquente pericoloso meritevole di almeno tre anni di galera, e l’altro assolutamente innocente. È possibile lasciare un così largo margine di potere ad uomini che possono sbagliare? È possibile che i nostri legislatori non abbiano ancora capito la necessità di garantire l’indiziato?
Ecco, non ho altro da dire. Auguro al tuo libro un grande successo, vorrei che tu avessi lettori a migliaia e che tutti, alla fine, arrivassero a pensare “giustizia” con l’iniziale minuscola».
Era il 1970! Quarantaquattro anni fa! Lelio Luttazzi trascorse anni a querelare, a fare cause civili (mai una persa), poche lire per carità, ma immense soddisfazioni. Perché? Perché i giornalisti scrivendo di Lelio, non perdevano mai l’occasione di ritirare fuori quella faccenda e scriverne sempre in modo errato, con superficialità, senza documentarsi mai abbastanza.
Lelio mi ha lasciata nel 2010. Ho continuato io al posto suo a fare cause: l’ultima vinta qualche mese fa.
Rossana Luttazzi
Conclusione
La lettera scritta da Rossana Luttazzi ormai più di dieci anni fa appare quanto mai attuale. I temi che solleva sono ancora oggi oggetto di ampio dibattito: la responsabilità civile dei magistrati, il ruolo della stampa nella corretta diffusione delle notizie, le garanzie per l'imputato. Sono argomenti divisivi su cui l'opinione pubblica e il legislatore non sembrano trovare accordo. E voi, che cosa ne pensate? Quali sono i limiti che Stato, magistratura e stampa dovrebbero avere?
Non sono domande banali, sono domande sostanziali. Perché questa non è una storia eccezionale. È una storia che può accadere. E continua ad accadere.