Milano, 1967. Un ragazzo in divisa, un delitto, un testimone che sbaglia. Questa è la storia di Pasquale Virgilio: un innocente sacrificato forse in nome di un ordine in cui cominciavano a serpeggiare tensioni, depistaggi e silenzi. Un caso minore, ma un segnale forte di un’Italia che stava per entrare nei suoi anni più bui.
Ci troviamo nella Milano della seconda metà degli anni ‘60. In un’Italia in pieno boom economico si intrecciano operai, fabbriche, studenti. E tensioni politiche sotterranee. È l’Italia dei cortei, dei comizi infuocati, delle piazze gremite di speranza (o di paura).
In questo scenario, un ragazzo di ventidue anni, Pasquale Virgilio, viene strappato alla sua vita, messo in cella, trasformato in un colpevole perfetto. Ma la sua storia non è solo un errore giudiziario: è un tassello minore e dimenticato al confine storico degli anni di piombo, di quella stagione che gli studiosi avrebbero poi chiamato della strategia della tensione. Pasquale Virgilio, “Max” per gli amici, è un soldato di leva. Sta facendo la naja a Trieste, ma a marzo del 1967 ottiene una licenza di convalescenza. Torna così a Milano per qualche giorno.
Quella mattina cammina con la sua divisa, diretto a casa. Attraversa piazzale Lotto: un quartiere popolare, distributori di benzina, bar di passaggio. È lo stesso piazzale che, un mese prima, la sera del 9 febbraio, ha visto scorrere il sangue di Innocenzo Prezzavento, 48 anni, benzinaio, ucciso con un colpo di pistola alla testa per una rapina da poche migliaia di lire.
Milano allora non è solo la città del boom: è una città inquieta, già teatro di prime tensioni politiche che sfoceranno, due anni dopo, nella strage di piazza Fontana.
“Max” non sa che quella camminata gli costerà due anni di vita.
Quando arriva sotto casa, duecento metri più avanti, trova due “gazzelle” dei carabinieri. Una decina di uomini in divisa presidiano l’ingresso. Virgilio pensa: “Neanche dovessero prendere Al Capone.”
Sale le scale senza capire. A ogni pianerottolo, uomini armati. Arrivato alla sua abitazione, infila la chiave nella serratura. Delle mani lo bloccano. La porta si chiude alle sue spalle. E senza spiegazioni, i carabinieri iniziano a rovistare in casa. Cercano prove. Non trovano nulla, ma per Pasquale Virgilio non è finita: lo portano via lo stesso. Nella caserma di via Manara, Virgilio, che aveva piccoli precedenti per furto, scopre perché lo hanno portato lì: lo accusano di quindici rapine, tra cui quella di piazzale Lotto.
I verbali parlano di un bandito descritto come “biondo, giovane, magro, alto circa un metro e ottanta”. Virgilio era alto un metro e settanta ed era castano, biondo proprio non lo era mai stato. Ma le forze dell’ordine hanno un testimone: Italo Rovelli, commerciante di automobili di Sanremo, che durante un riconoscimento aveva detto di essere sicuro all’80% che il colpevole fosse Pasquale.
Rovelli sfogliando le foto segnaletiche aveva indicato “Max” come il “biondino di piazzale Lotto”. Virgilio protesta: lui quella sera non era lì, non ha un alibi, è vero, ma nemmeno un movente. L’interrogatorio diventa un vero e proprio calvario. Alla fine, cede. Firma una deposizione che non scrive di suo pugno: quella firma basterà a farlo entrare a San Vittore, in isolamento. A niente servirà la sua successiva ritrattazione.
Per l’opinione pubblica, Pasquale Virgilio diventa subito “il mostro di piazzale Lotto”. La stampa parla di un colpevole, la gente lo addita.
Una notte di luglio, alle undici, viene fatto uscire di cella. Viene portato sul luogo del crimine per una “ricostruzione dei fatti”. Non una, ma quattro “gazzelle” lo scortano. La gente del quartiere si affolla per vedere da vicino quello che crede l’assassino del benzinaio.
Non c’è arma, non c’è traccia del bottino. Ma in un Paese che si prepara a entrare negli anni più bui del terrorismo, sembra che la necessità di avere un colpevole sia più forte della verità.
Passano due anni prima dell'avvio del processo. In cella, Virgilio resta isolato. Il suo avvocato, Armando Cillario lo assiste come può. L’inchiesta cambia mani: quattro giudici istruttori si alternano, segno di una macchina giudiziaria che non sa (o non vuole) fermarsi a riflettere.
Nel frattempo, l’Italia cambia volto: piazza Fontana è dietro l’angolo. I servizi segreti, le organizzazioni di estrema destra, cellule clandestine, la strategia della tensione inizia a prendere forma. Bombe, attentati, depistaggi. L’obiettivo è creare paura, caos, instabilità.
Nel buio di una cella di San Vittore, Pasquale Virgilio è solo un pezzo minore di questo grande puzzle. Ma un pezzo che rischia di essere sacrificato per chiudere in fretta un caso scomodo. Quando finalmente si apre il processo, l’esito appare scontato: ergastolo. L’accusa è certa di avere il colpevole.
Ma un sabato di luglio del 1969, una notizia esplode sui giornali: Giandomenico Pisapia, noto avvocato, già impegnato in importanti casi civili e padre di Giuliano Pisapia, oggi noto politico e giurista, interviene. Pisapia aveva inviato un telegramma al presidente della Corte d’Assise di Milano, Mario Del Rio, dicendo di essere a conoscenza di informazioni decisive sull'omicidio Prezzavento, ma di non poterle rivelare perché coperte da segreto professionale. Il lunedì successivo, Pisapia si presenta in aula durante la sesta udienza del processo. Davanti alla corte afferma di aver ricevuto la visita di una persona che gli aveva rivelato fatti e circostanze tali da escludere che l’attuale imputato fosse colpevole dei reati che gli erano stati ascritti. Gli elementi di accusa crollano, il pubblico ministero Antonino Scopelliti chiede l’assoluzione.
In quaranta minuti di camera di consiglio, la Corte chiude il fascicolo: Pasquale Virgilio è assolto “per non aver commesso il fatto”.
Dopo oltre 800 giorni di carcere, torna libero.
Due anni dopo la verità inizia ad affiorare. Il 14 aprile 1971, davanti al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, tre giovani legati agli ambienti dell’estrema destra confessano la rapina di piazzale Lotto: Gianni Nardi, Giancarlo Espositi e Roberto Rapetti, indicato come autore materiale del delitto e poi suicidatosi in carcere.
I loro nomi ricorrono nei fascicoli sulla destra eversiva dell’epoca. Secondo dossier e articoli di cronaca, Nardi risulta più tardi coinvolto nelle indagini sulla pista nera dell’omicidio Calabresi, per il quale però non fu mai condannato. I tre in realtà erano già stati accostati alla rapina di Piazzale Lotto. Erano stati infatti indicati come responsabili da Marcello Dal Buono, 19 anni, simpatizzante di estrema destra, che aveva raccontato di sapere chi aveva sparato, chi era con chi, chi aveva preso i soldi, ma che era stato preso in scarsa considerazione perché appena uscito da una casa di cura e che era morto poco dopo la testimonianza in circostanze misteriose.
Sta di fatto che la pista nera è più di un dettaglio: è un segnale di come in quegli anni rapine, furti, violenze comuni e violenze politiche spesso si confondevano. Lo scopo non era solo criminale: si finanziavano gruppi clandestini, cellule che avrebbero acceso micce ben più devastanti negli anni a venire.
Dopo la scarcerazione, per Pasquale Virgilio comincia una seconda vita.
La sua storia viene raccontata da Guido Vergani, che ai tempi della vicenda lavora per il settimanale “Il Mondo”, nel libro “L’assassino di Piazzale Lotto”, pubblicato nel 1973. Vergani aveva conosciuto Pasquale in carcere e lo avrebbe poi aiutato a inserirsi nell'ambiente delle maestranze teatrali, al teatro Franco Parenti a Milano. Virgilio diventerà successivamente direttore tecnico al teatro Cagnoni di Vigevano. Lascerà un ricordo di sé sempre pieno di affetto.
Pasquale Virgilio è morto l’8 marzo 2024 all'età di 82 anni. Non risulta che abbia ricevuto né risarcimenti, né scuse formali. Non esistono interviste, memorie, memoriali di quegli anni. È rimasto solo un nome in un vecchio fascicolo di cronaca giudiziaria. Ma la sua storia parla ancora.
Parla di come, in anni di tensione e paura, un ragazzo normale potesse diventare un colpevole per errore. Di come testimoni, dichiarazioni estorte, piste false siano state armi più potenti di una pistola.
E parla di come, dietro l’etichetta di strategia della tensione, si nasconda un Paese in cui forse la verità era spesso sacrificata per mantenere l’ordine.
Oggi, rileggendo quella deposizione firmata con la forza, la foto segnaletica sbagliata, i due anni passati dietro le sbarre, ci resta una domanda semplice: quanti “Max” sono stati schiacciati da una macchina giudiziaria più veloce della verità?
Pasquale Virgilio, “il biondino che non era biondo”, ci ricorda che nessun contesto storico giustifica la fretta di chiudere un caso. E che, in ogni tempo, la libertà non si difende solo nelle piazze: si difende nei tribunali, nelle celle dimenticate, nei fascicoli polverosi.
Quelli in cui a volte, tra righe storte e nomi scoloriti, un innocente aspetta ancora giustizia.