“La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.”
Questo è quanto recita l'articolo 27 della nostra Costituzione.
Questa settimana, In memoriam cambia voce.
Questa è una puntata speciale.
Un episodio necessario.
Non vi racconteremo di un caso giudiziario.
Vi porteremo altrove, all'interno delle celle dei detenuti nelle carceri italiane.
Non vi parleremo solo di storie, ma di numeri. Di vite. Di assenze. Di chi non ce la fa. Di chi non ce l'ha fatta.
Io sono Laura Allevi e insieme a Lorenzo Viviani dedichiamo questo episodio a chi ogni anno decide di togliersi la vita in carcere.
Vi chiediamo solo una cosa: ascoltate fino alla fine.
Perché sapere è il primo passo per non voltarsi più dall’altra parte.
Nel 2024, 91 detenuti si sono tolti la vita nelle carceri italiane. Novantuno. Il numero più alto mai registrato nella storia repubblicana.
Nel primo semestre del 2025, siamo già a 37 suicidi. Il che significa una media di un suicidio ogni 4 giorni. Un numero destinato ad aumentare, forse proprio mentre stiamo parlando.
È una spirale. Una spirale silenziosa che attraversa celle sovraffollate, corridoi stretti, sezioni isolate.
Una spirale che uccide nel silenzio, nella burocrazia, nell’indifferenza.
Oggi vi raccontiamo cosa succede davvero dentro le carceri italiane.
Lo facciamo con i numeri. Con le storie. E con le voci di chi chiede, da anni, riforme strutturali.
Questo è un episodio di denuncia. Ma anche un appello.
Partiamo dai numeri.
Secondo il Garante Nazionale dei Detenuti e i dati raccolti da Antigone, Avvenire, Radio Radicale e Il Bo Live dell’Università di Padova, nel 2024 si sono verificati:
- 91 suicidi
- 12.896 aggressioni
- 8.974 atti di autolesionismo
Nel primo semestre del 2025, i suicidi già confermati sono 37, mentre i decessi totali nelle carceri italiane superano quota 100.
Il tasso di suicidio tra i detenuti è oggi 25 volte superiore rispetto a quello della popolazione generale.
Non è un caso. Le condizioni in cui versano i nostri istituti penitenziari sono drammatiche.
A partire da un dato che ricorre in ogni report: il sovraffollamento.
Al 30 giugno 2025, i detenuti presenti negli istituti italiani sono 62.728.
La capienza regolamentare? 51.280 posti. Ma almeno 4.500 di questi sono indisponibili per lavori o inagibilità.
Il sovraffollamento reale è dunque circa del 133%.
In alcuni istituti, come San Vittore a Milano, si arriva al 218%.
A Poggioreale, a Napoli, dove negli ultimi 18 mesi si sono verificati 6 suicidi, le celle da 6 ospitano fino a 12 persone.
Le conseguenze sono devastanti:
- bagni fatiscenti
- assenza di luce naturale
- mancanza di privacy
- ore d’aria ridotte
- personale ridotto al minimo.
In molte strutture, un solo psicologo gestisce centinaia di detenuti.
E quando una persona dichiara di stare male, spesso viene messa in isolamento.
Una cella nuda. Una luce sempre accesa. Nessun contatto.
Come ha dichiarato Mauro Palma, ex Garante dei Detenuti, “il carcere è oggi un moltiplicatore di sofferenza, non uno strumento di rieducazione”.
Ma c’è un altro aspetto di cui si parla troppo poco.
Dei 62.728 detenuti attuali, circa un quarto sono in attesa di giudizio, cioè non sono stati ancora condannati.
Nel 2025, 14 dei 37 suicidi riguardano proprio persone in attesa del primo giudizio.
Molti di loro entrano in carcere senza condanna definitiva e ne escono in una bara.
Va poi messo in evidenza che in teoria i reclusi in custodia cautelare in carcere dovrebbero stare divisi dai detenuti condannati. E anche se le percentuali si sono molto abbassate negli ultimi anni, e noi speriamo vivamente che continuino a farlo, la mancanza di stabilimenti rende quasi impossibile questa divisione nella pratica.
Questa situazione rende ancora più evidente che il principio di “non colpevolezza fino a sentenza definitiva” esiste sulla carta.
Nella realtà, chi entra in cella si trova nel punto più basso del sistema: abbandonato, dimenticato, senza difesa.
L’età media dei suicidi nel biennio 2024–2025 oscilla tra i 28 e i 38 anni.
Giovani uomini, spesso alla prima esperienza carceraria.
Molti con problemi psichiatrici o tossicodipendenza, spesso non curati.
E i minori?
Secondo Antigone e il Garante, al momento non risultano suicidi documentati negli istituti minorili nel 2024–2025.
Ma la situazione è comunque allarmante: a fine giugno 2025, sono 611 i minori reclusi, un record assoluto.
Molti sono in attesa di giudizio, alcuni in isolamento per settimane.
Il rischio esiste. E cresce.
Quelli che abbiamo citato sono numeri e statistiche, ma le donne e gli uomini che hanno scelto di togliersi la vita sono vere, sono reali.
Chi erano dunque queste persone?
C'è Sergio, 30 anni. Era detenuto a Frosinone.
Tossicodipendente. Reati minori. Aveva chiesto aiuto, più volte.
Si è impiccato in cella. Non è morto subito: ha lottato tre giorni in ospedale prima di spegnersi, il 14 luglio 2025.
Nessuno della sua famiglia era stato avvisato.
Un altro caso, sempre a Frosinone, febbraio 2025: uomo di 52 anni, detenuto da pochi mesi.
Anche lui si è tolto la vita.
Storia simile a quella di un uomo a Terni, detenuto per reati contro la famiglia.
Primo maggio 2025. Impiccato nella sua cella.
Tre storie, tre vite, tre nomi dimenticati. Ma rappresentano decine di altri.
Questo è un sistema che produce morte.
In carcere si muore.
Si muore di solitudine, si muore per mancanza di cure.
Si muore per disperazione.
Ma soprattutto si muore perché lo Stato non guarda.
Molti dei detenuti suicidi non avrebbero dovuto essere lì.
Erano in attesa di giudizio.
Erano tossicodipendenti senza terapia.
Erano giovani, fragili, malati.
Cosa si può fare?
Le soluzioni ci sono.
E non sono utopie. Sono misure concrete, attuabili, già previste dalla legge, ma purtroppo poco utilizzate. Non vogliamo certo proporre il solito decalogo, non abbiamo la verità in tasca o una soluzione semplice pret-a-porter, ma sarebbe assurdo non parlarne, sarebbe assurdo pensare di essere su una strada senza uscita.
Anche perché esistono davvero delle possibilità e a fronte di una situazione così drammatica ci si chiede quando si deciderà di prendere delle decisioni organiche che portino la situazione a migliorare.
1. Si può ridurre il ricorso alla custodia cautelare in carcere, che dovrebbe essere prevista solo per reati gravi o rischio di fuga in favore di quella domiciliare, che andrebbe invece fortemente incentivata.
2. C'è poi la questione dell’applicazione delle misure alternative alla detenzione, cioè lavori socialmente utili, semilibertà, affidamento terapeutico.
Il ministro Nordio ha proposto proprio quest'anno la scarcerazione controllata di 10105 persone con pene residue minori, idonee almeno sulla carta a fruire di queste misure alternative. E ha proposto la costituzione di una task force che se ne occupi.
Il percorso rieducativo è molto più efficace quando non sono completamente recisi i legami tra il detenuto e la propria quotidianità. Le misure alternative devono però passare attraverso il vaglio della magistratura di sorveglianza, coadiuvata - tra gli altri - anche dalla direzione degli istituti penitenziari: ed è qui che la task force dovrebbe facilitare l’obiettivo ed incentivare le comunicazioni fra questi organi.
È evidente inoltre che il decongestionamento degli istituti renderebbe molto più tollerabile la permanenza dei detenuti e il rapporto tra popolazione carceraria e personale di sorveglianza molto più funzionale.
Di conseguenza i rischi collegati sarebbero di gran lunga minori.
Rimane poi il fatto che la vita all'interno delle carceri non è comunque una passeggiata. Per questo sarebbe dunque auspicabile potenziare il supporto psichiatrico e psicologico con relativi programmi di monitoraggio per i nuovi ingressi.
E formare il personale penitenziario non solo alla sicurezza, ma anche alla relazione, all’ascolto, alla gestione delle crisi.
Non ultimo, rendere pubblici i dati per ogni suicidio: nome, età, reato, condizione giudiziaria. Non è una curiosità morbosa. Se noi sappiamo chi erano davvero queste persone, perché erano detenute, da quanto tempo e in che condizioni, possiamo intervenire per prevenire, per aiutare.
Solo la trasparenza può generare responsabilità.
Il carcere è lo specchio di una democrazia.
E oggi, lo specchio ci rimanda un’immagine cupa, fatiscente, crudele.
Che società siamo, se lasciamo che chi sbaglia venga punito, di fatto, con la morte?
Che democrazia è, se lo Stato perde la capacità di custodire, curare, rieducare?
Attenzione, esistono esempi virtuosi, carceri all'avanguardia che portano avanti con professionalità programmi di reinserimento che funzionano, che offrono ai detenuti condizioni dignitose. Bollate è noto sia per i programmi di reinserimento sia per per le attività trattamentali. Poi c'è Opera, dove alla attività trattamentali si affiancano anche quelle riabilitative.
Ancora: il Centro Diagnostico Terapeutico di Pisa, che si occupa di detenuti con problemi psichiatrici, sono altri esempi di buone pratiche, anche se non sempre estese all'intero sistema.
Il fatto è che non possiamo basarci solo su esempi, gli interventi devono essere diffusi. Devono essere strutturali.
Non possiamo più girare lo sguardo.
Non possiamo più ignorare questi numeri.
Perché se 91 persone si tolgono la vita in un solo anno…
Allora non stiamo parlando di tragedie.
Stiamo parlando di una strage istituzionale.