Milano, 29 settembre 1932.
Nasce Pietro Valpreda. Un ragazzo come tanti.
Fa il militare nel secondo battaglione del 114º fanteria “Mantova”.
Più tardi, qualcuno dirà che era stato addestrato come “guastatore”, cioè esperto di esplosivi. E questo peserà durante le indagini.
In realtà, Valpreda non maneggiò mai ordigni durante il servizio.
Congedato, lavora come artigiano.
Ma la sua vera passione è un’altra: la danza.
Diventa ballerino professionista. Lavora con la Compagnia Italiana di Operette, si esibisce accanto a Carla Fracci, compare in TV, persino a Canzonissima.
Ma non è solo palcoscenico.
C’è anche l’attivista politico. L’anarchico.
E sarà proprio questa parte di sé a cambiargli la vita.
Approfondiamo.
Roma, 1969: Valpreda si trasferisce nella capitale.
La città è attraversata da tensioni sociali e politiche.
Siamo nel post biennio rosso: scioperi, manifestazioni, scontri di piazza.
Gli anarchici sono tra i gruppi più sorvegliati.
Valpreda frequenta il circolo Bakunin, legato alla Federazione Anarchica Italiana.
Un ambiente legalitario e moderato.
Ma non tutti condividono quella prudenza.
Un gruppo di giovani, tra cui Valpreda, Mario Merlino, Olivo Della Savia, Emilio Bagnoli, Roberto Gargamelli ed Enrico Di Cola, fonda il Circolo 22 marzo.
Il nome richiama la data dell’occupazione dell’università di Nanterre nel 1968, simbolo del Maggio francese.
È un collettivo piccolo, animato da spirito giovanile, protesta studentesca e antimilitarismo.
Niente clandestinità, niente azioni armate.
Tra i membri c’è anche Mario Merlino, che si presenta come anarchico ma è in realtà un militante neofascista di Avanguardia Nazionale.
E c’è anche Salvatore Ippolito, agente dei servizi segreti sotto copertura.
Due infiltrati che avranno un ruolo chiave nei depistaggi successivi.
Il 12 dicembre 1969, dopo la bomba in Piazza Fontana, il Circolo 22 marzo, fino a quel momento passato in sordina, finisce subito sotto i riflettori.
La magistratura e la stampa lo descrivono come una fucina di sovversivi.
Un tassista, Cornelio Rolandi, dichiara di aver portato in Piazza Fontana un uomo “molto somigliante” a Valpreda.
Dice che era sceso con una valigetta ed era tornato senza.
Basta questo per arrestarlo.
Insieme a lui, Merlino e altri cinque del Circolo.
Valpreda ha un alibi: era a casa della prozia, malato.
Ma non viene creduto.
A questo punto parte il linciaggio mediatico.
La stampa non ha dubbi.
L’Unità lo chiama “il mostro di Piazza Fontana”.
L’Avanti! parla di “individuo morso dall’odio viscerale per ogni forma di democrazia”.
In TV, Bruno Vespa lo presenta al TG1 come “il vero colpevole”.
Il giornalista Mario Cervi scrive che la sua malattia alle gambe, il morbo di Buerger, “potrebbe aver scatenato in lui un’avversione forsennata per l’umanità intera”.
I titoli si moltiplicano:
“una belva oscena e ripugnante”.
“un mostro disumano”.
“una belva umana mascherata da comparsa da quattro soldi”.
È un processo a mezzo stampa senza possibilità di appello.
Nel frattempo la situazione si complica:
Un verbale d’interrogatorio, diffuso negli ambienti anarchici, sembra indicarlo come legato agli esplosivi.
Ma la frase originale era diversa: si trattava di una testimonianza indiretta, poi travisata dagli inquirenti fino a diventare un’accusa diretta.
Da lì nasce una voce che non verrà mai del tutto smentita: l’idea che Valpreda fosse manovrato dallo Stato.
Alcuni, anche a sinistra, continueranno a crederlo.
Solo pochi lo difendono apertamente: Umanità Nova e Lotta Continua.
Dal carcere, il 14 aprile 1970, Valpreda scrive ai compagni:
“Cari compagni… in carcere, per ora, malgrado la grande repressione, vedo solo anarchici.
Saluti e anarchia.”
Poche righe, asciutte. Ma cariche di dignità e rabbia.
Il tempo intanto passa e qualcosa inizia a scricchiolare:
Nei circoli anarchici si fa strada l'ipotesi di infiltrazioni di estremisti di destra come Merlino e Antonio Sottosanti, detto “Nino il fascista”. Alcuni detenuti sostengono che fu proprio Sottosanti, sosia di Valpreda, a salire sul taxi.
Anche Pierluigi Concutelli, terrorista di Ordine Nuovo, entra in gioco. E poi Freda e Ventura, il terrorismo nero per eccellenza.
Freda, in carcere, dirà:
“È possibile che, in carcere, io abbia detto che su quel taxi poteva esserci una persona diversa da Valpreda”.
Lo scenario che emerge è quello della strategia della tensione: attentati, depistaggi, ritrattazioni, il tutto per destabilizzare le istituzioni.
Come accadrà anche nel 1973 con la strage alla Questura di Milano, attribuita falsamente a un anarchico, Gianfranco Bertoli, in realtà informatore dei servizi.
E mentre la trama di questa ragnatela si fa sempre più fitta Valpreda resta in carcere.
Per 1110 giorni, salvo una breve degenza in ospedale, scortato da cento agenti.
Il 29 dicembre 1972 viene scarcerato.
Non perché assolto, ma per decorrenza dei termini.
La sua liberazione è resa possibile dalla legge 773 del 15 dicembre 1972, passata alla storia come “Legge Valpreda”, che introduce limiti alla carcerazione preventiva anche per reati gravissimi. Viene approvata da una politica che si rende conto che il caso si è trasformato in accanimento giudiziario.
In quell’anno Valpreda si candida con il quotidiano Il Manifesto, nella speranza di sfruttare l’immunità parlamentare. Ottiene 11.605 preferenze, ma la lista non supera il quorum.
E uscito dal carcere si sposa. È il 25 aprile 1973. Data simbolica. La moglie si chiama Laura Reggi. Nasce un figlio: Tupac Libero Emiliano.
Storia privata e storia giudiziaria si intrecciano.
Il procedimento giudiziario è un labirinto: Roma, Milano, poi Catanzaro per “motivi di ordine pubblico”.
Dopo anni di rinvii, nel 1977 arriva l’assoluzione per insufficienza di prove.
Nel 1979, però, dal tribunale di Catanzaro arriva una condanna a 4 anni e mezzo per associazione sovversiva.
Gli altri imputati (Freda, Ventura, l’agente segreto Guido Giannettini) ricevono l’ergastolo.
Nel 1981, un nuovo verdetto che ribalta tutto: assoluzione per tutti. Per insufficienza di prove.
La Cassazione conferma nel 1987.
E la strage? Nessun colpevole.
I nomi, Freda, Ventura, Zorzi, Maggi, in pratica il terrorismo nero, restano.
Ma tutti assolti, prescritti o non più imputabili.
Fuori dal carcere, Valpreda continua la militanza anarchica.
Si interessa di federalismo, si avvicina persino alla Lega Nord.
Lavora come libraio, apre un locale.
Già in carcere aveva scritto poesie, diari, lettere.
Negli anni Duemila, insieme allo scrittore Piero Colaprico, firma i romanzi del maresciallo Binda.
Pietro Valpreda muore il 6 luglio 2002, a 69 anni, per un tumore.
Viene cremato, le sue ceneri riposano al Cimitero Monumentale di Milano.
La storia di Pietro Valpreda non è solo la storia di un uomo accusato ingiustamente.
È una lezione amara su come giustizia, media e potere possano intrecciarsi.
E su quanto sia difficile liberarsi da un’accusa… anche quando sei innocente.