Italia, anni di piombo. Bombe, processi, ergastoli e assoluzioni.
Massimiliano Fachini: neofascista, cerniera tra gruppi eversivi, simbolo di accuse e sentenze ribaltate.
Un uomo che ha scontato anni di carcere per reati non commessi. Da innocente…?
Domanda non banale perché è anche l’uomo che la giustizia ha condannato per banda armata.
Racconteremo la sua storia. Nessuna romanticizzazione, nessuna riabilitazione. Solo la realtà processuale. A voi, le considerazioni di ordine morale.”
C’è un nome che attraversa come un’ombra la storia giudiziaria italiana: Massimiliano Fachini.
Un uomo cresciuto tra le mura dell’università di Padova, tra scontri nei corridoi di Giurisprudenza e volantini del Movimento Sociale Italiano.
Figura centrale di Ordine Nuovo, filo diretto con i terroristi Franco Freda e Giovanni Ventura.
Accusato di stragi, attentati, omicidi. Prosciolto da quasi tutto. Condannato per banda armata.
Passò quindici carceri, decine di processi, anni di vita consumati in una cella.
Non era un eroe, né un martire. Era, va subito chiarito, un pezzo di quella macchina nera che provò a tenere in ostaggio la democrazia a colpi di bombe.
Per capire Fachini bisogna tornare all’Italia degli anni Sessanta.
Il Paese è la trincea della Guerra Fredda. A ovest la NATO, a est il Patto di Varsavia.
Qui la democrazia è un campo minato: DC al governo, PCI in crescita, tensione sociale alle stelle.
Nelle retrovie si muove la strategia della tensione.
Reti Stay Behind, Gladio, ex fascisti riciclati come patrioti anticomunisti.
Nella stessa orbita gravitano gruppi eversivi: Ordine Nero, con cellule a Milano, Brescia, Venezia; Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie; Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese; e i Nuclei Armati Rivoluzionari di Fioravanti.
Nei bar di periferia e nei retrobottega si scambiano pistole, manifesti e dinamite.
Fachini si muove in queste reti. Frequenta figure chiave come Carlo Digilio, «il tecnico», colui che, secondo diverse sentenze, insegnava a costruire timer e inneschi.
Partecipa a riunioni riservate a Padova, Milano, Verona. Qui i confini tra militanza politica e azione violenta si fanno labili.
Ma andiamo con ordine.
Massimiliano Fachini nasce a Tirana nel 1942, ma ha sempre vissuto a Padova. Nato a era figlio di Vinicio Fachini, l'ex questore di Verona negli anni della Repubblica Sociale Italiana.
A Padova Studia Giurisprudenza. Ma le aule universitarie sono più spesso teatro di scontri che di lezioni. Già nei primi anni Sessanta, la polizia annota il suo nome tra i leader dei neofascisti padovani.
Negli archivi di polizia è “una promessa dell’estremismo nero”, destinato a far carriera accanto a Freda e Ventura.
Quando non c’è tensione nei corridoi, Fachini organizza viaggi, raduni clandestini, raccolte fondi.
Non finirà mai gli studi universitari. Il suo banco è la piazza: a Padova, nel 1970, entra in Consiglio Comunale per il Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale, partito fondato da ex fascisti repubblichini.
Quando Almirante arriva in città, è lui a guidare il corteo.
Nel 1968, durante la Primavera di Praga, Fachini scala il Campanile del Santo ed espone la bandiera cecoslovacca: una sfida ai comunisti.
Pochi mesi dopo, davanti alla casa del questore Attilio Bonanno, esplode un ordigno.
Il 15 aprile 1969 un’altra bomba devasta la biblioteca del rettore Enrico Opocher, dove insegna anche Toni Negri.
Le indagini puntano dritte su Ordine Nuovo. A coordinare gli investigatori c’è Pasquale Juliano, capo della Mobile di Padova.
Juliano ordina una raffica di perquisizioni. A incastrare i retroscena è Franco Tomasoni, una gola profonda che rivela tutto.
Ma i dossier scompaiono. Juliano, accusato, e anni dopo risultato innocente, per aver prodotto prove false per incastrare i terroristi, viene trasferito, i giudici Stiz, Calogero e Tamburrino bloccati.
La Rosa dei Venti, la cellula nera, rimane in piedi.
L’8 luglio 1969 Fachini finisce in carcere per la prima volta, sfiorato dal “caso Juliano”.
Fachini viene scagionato, ma da quel momento non uscirà più dai radar.
A Catanzaro lo ritengono complice della fuga di Franco Freda.
Intanto, la polizia lo scheda come “cerniera” tra la cellula veneta e altre formazioni eversive.
Nel 1969 scoppia la bomba di Piazza Fontana: 17 morti, 88 feriti.
Il giudice D’Ambrosio lo accusa di complicità. Da Belluno a Catanzaro, Fachini diventa l’imputato perfetto.
Dopo anni di udienze, assolto. Ma intanto un altro fascicolo si apre.
Nel 1972, mentre è in cella, Fachini riceve una comunicazione giudiziaria per omicidio volontario: Alberto Muraro, portiere del suo stabile, è morto cadendo nella tromba delle scale.
Gli inquirenti sospettano un omicidio di depistaggio.
Ci vorranno cinque anni per stabilire che Muraro è morto accidentalmente. Fachini di nuovo assolto, ma il suo nome resta sempre tra i sospettati d’eccellenza.
Negli anni ’70, Roma è un campo di battaglia: esplosioni rivendicate dal “Movimento Popolare Rivoluzionario”. Fachini viene accusato di esserne il regista occulto.
In carcere piovono altri mandati: attentati a Rovigo, un fallito attentato a Tina Anselmi nel 1980.
Un pentito, trafficante di droga, lo coinvolge millantando confessioni.
Ma ancora una volta il giudice Felice Casson chiude tutto: «Azione improponibile».
Niente prove. Solo carte ingiallite.
2 agosto 1980. Ore 10.25. Stazione di Bologna: 85 morti, 200 feriti.
Il nome di Fachini torna in cima.
Il 4 settembre è arrestato: avrebbe fornito l’esplosivo.
Ha 38 anni, una moglie, Loredana, e due figli.
Per i magistrati è ancora il solito tassello tra Freda, Ventura e Fioravanti.
Nel 1988 il primo grado lo condanna all’ergastolo.
Ma la sentenza cade: l’11 luglio 1990, assolto perché il fatto non sussiste.
La Cassazione annulla: nuovo processo.
Il 16 maggio 1994: Fioravanti, Mambro, Picciafuoco condannati all’ergastolo. Fachini di nuovo assolto tra l'indignazione dei parenti delle vittime.
Nonostante l’assoluzione dalle stragi, Fachini non esce immacolato.
Subisce condanne definitive per detenzione e porto illegale di armi da guerra, ricostituzione di partito fascista, associazione sovversiva.
Nel 1979 viene condannato a 8 anni di reclusione per banda armata.
In appello la pena si riduce, ma restano oltre 5 anni di carcere preventivo, una parte scontata in isolamento.
Il giudice Guido Salvini scriverà nelle motivazioni che Fachini era parte di «un ambiente di raccordo tra la militanza politica legale del MSI e la manovalanza violenta clandestina».
Cioè, non era solo un teorico: organizzava, reclutava, copriva.
E c’è di più: Nel 2022 la sentenza di condanna in primo grado a Paolo Bellini (condannato all’ergastolo come esecutore materiale della strage di Bologna) confermerà il coinvolgimento di Fachini nella preparazione della strage. Nella sentenza si legge: "Fachini era a conoscenza della strage, tanto è vero che raccomandò alla sua amica Jeanne Cogolli di allontanarsi da Bologna in quanto vi sarebbe accaduto 'qualcosa di grosso', con ciò intendendo un'azione delittuosa che avrebbe avuto notevole risonanza e che avrebbe potuto portare a una repressione nei confronti dei rappresentanti della destra eversiva".
D'altro canto Massimiliano Fachini ha trascorso anni della sua vita in carcere per accuse di attentati e omicidi che non si sono mai tradotti in una condanna, per i quali è stata riconosciuta la sua innocenza. E comunque la si voglia vedere questa è stata ingiusta detenzione, ma non era un uomo qualunque passato per caso nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non era un omonimo confuso per errore con uno degli appartenenti ai gruppi eversivi. A quel mondo aderì, in quel mondo militò, ne condivise gli scopi, non si pentì mai.
Scarcerato nel 1993, si reinventa agente di commercio. Vive in un appartamento popolare a Padova. Subisce anche un attentato dinamitardo, privo però di conseguenze, ad opera di sconosciuti. Si tiene lontano dai palchi politici. L’unica apparizione pubblica, anni dopo, è a un convegno con Vincenzo Muccioli di San Patrignano.
La destra “rinnovata” di Gianfranco Fini lo taglia fuori: troppo ingombrante il suo passato di bombe e dossier.
Il 3 febbraio del 2000 ,la nebbia lo inghiotte per sempre: muore tra le lamiere, mentre si recava al lavoro a bordo della sua Fiat Bravo, percorrendo un tratto dell'autostrada Milano-Venezia nei pressi di Grisignano
Oggi ci resta la memoria di un Paese che fece della violenza un linguaggio quotidiano.
E un ammonimento: tra verità storica e verità processuale spesso resta un vuoto.
In quel vuoto vive ancora l’Italia degli anni di piombo. E viviamo in un limbo anche noi: che rapporto abbiamo con l'ingiusta detenzione di una persona che non era “pulita”? E che infatti fu poi anche condannata per gravi reati ed ebbe comportamenti censurabili. È possibile arrivare a separare la persona dall'imputato? Quanto cambia la nostra percezione di giustizia quando a venire assolto per un reato è qualcuno che tutto sommato per noi sarà sempre colpevole di tutto, che quegli anni di carcere per reati non commessi in fondo se li “era meritati”, a prescindere dalle sentenze?