Il giuramento di Ippocrate è il simbolo dell’etica medica: un impegno solenne a esercitare la professione con competenza, rispetto e umanità, ponendo al centro il bene del paziente. Significa curare senza discriminazioni, proteggere la vita e la dignità di ogni persona, mantenere il segreto professionale e agire sempre secondo scienza e coscienza, mettendo la salute al di sopra di ogni interesse personale o esterno.
Cosa succederebbe se questo giuramento venisse tradito? Se il medico a cui affidiamo la nostra vita invece che curare volesse la nostra morte?
E se poi si scoprisse che questo medico invece non ha voluto la morte di nessuno ed è stato oggetto di false accuse?
Il caso Carlo Mosca, di Laura Allevi e Lorenzo Viviani
Quello che avete appena ascoltato è un estratto dell’intervista che Carlo Mosca ha rilasciato a Cremona Oggi subito dopo l’assoluzione.
Ma chi è Carlo Mosca?
È un medico che nel pieno della pandemia, in un’Italia travolta dalla paura, dalla morte, dall’emergenza, viene arrestato con l’accusa più infamante che si possa rivolgere a un sanitario: aver ucciso i suoi pazienti. È un uomo che ha passato 522 giorni agli arresti domiciliari.
Da innocente.
E che oggi può finalmente tornare a testa alta.
Oggi vi portiamo nel cuore della Lombardia, a Montichiari, in provincia di Brescia.
È il 25 gennaio del 2021.
Il Covid sta ancora travolgendo ospedali, reparti, pronto soccorso.
E proprio lì, al Pronto Soccorso dell’ospedale di Montichiari, un medico viene arrestato. Si chiama Carlo Mosca, ha 51 anni, è originario di Persico Dosimo, in provincia di Cremona. È il primario reggente del reparto.
L’accusa? Omicidio volontario. Anzi, duplice omicidio.
Secondo l’ordinanza firmata dal giudice, Mosca avrebbe somministrato ai pazienti due farmaci (il Propofol e la Succinilcolina) in dosi letali.
Ma cosa sono e a che cosa servono questi due farmaci?
Il propofol e la succinilcolina vengono utilizzati in ambito anestesiologico. Il propofol è un agente sedativo-ipnotico, mentre la succinilcolina è un farmaco bloccante neuromuscolare depolarizzante, utilizzato per indurre il rilassamento muscolare, in particolare per facilitare l'intubazione endotracheale.
Ma quale motivo avrebbe avuto Mosca per provocare la morte di due dei suoi pazienti?
Quello di alleggerire il reparto. Liberare letti in piena emergenza.
Un’accusa gravissima, fondata su intercettazioni ambientali e, soprattutto, sulle dichiarazioni di due infermieri che lavoravano con lui: Michele Rigo e Massimo Bonettini.
Secondo i due operatori, Mosca avrebbe volontariamente ucciso pazienti malati di Covid per “fare spazio”.
Una narrazione che esplode sui giornali.
Titoli, trasmissioni, polemiche.
Mosca finisce agli arresti domiciliari. Resterà lì per 522 giorni.
Un anno e mezzo in cui non potrà difendersi da uomo libero.
Un anno e mezzo in cui il sospetto prende il posto della fiducia. In cui il patto medico paziente, la fiducia, crollano.
E in cui, da medico eroe, Mosca viene trasformato in un presunto carnefice.
Ma la verità è molto diversa.
Quando il processo inizia i nodi vengono al pettine.
E il primo luglio del 2022, la Corte d’Assise di Brescia assolve Carlo Mosca con formula piena:
“Il fatto non sussiste”.
Non solo. I giudici ordinano l’immediata cessazione della misura cautelare e trasmettono gli atti alla Procura, perché valuti se procedere per calunnia contro i due infermieri accusatori.
Ma torniamo un attimo al processo e analizziamo nel dettaglio. Cerchiamo di capire come sono andate le cose.
In aula, durante il dibattimento, le accuse di Rigo e Bonettini crollano.
Le dichiarazioni dei due infermieri si rivelano piene di contraddizioni, tempi non verificabili, supposizioni, voci.
Le presunte prove (due fiale vuote trovate in un cestino) appaiono come “materializzate ad arte”. Una manovra, scrivono i giudici, per accerchiare il primario e comprometterne irrimediabilmente la posizione.
Ma perché.
Premettiamo che la Corte d’Assise di Brescia ha sottolineato che l'accusa dei due infermieri si è costruita su una «linfa vitale» fatta di tesi, supposizioni e sospetti, senza alcun riscontro concreto, trasformando voci in una calunnia di duplice omicidio. E ha criticato l’approccio dei due infermieri, definendolo come un super‑attivismo investigativo, sostanziatosi in un’adesione fideistica a idee senza riscontri, evolvendo poi in metodologie “sleali e calunniose”.
Il primario stesso ha suggerito che la motivazione potesse derivare da una rimozione dei loro turni o delle condizioni di lavoro, causando risentimento. In un’intervista ha detto:
“Io non ho somministrato il Propofol. Qualcuno ha voluto farmi del male”.
Nel corso del processo, i giudici hanno poi descritto l’azione del duo come un’azione in tandem, una "macchinazione", un vero e proprio "stratagemma calunnioso", finalizzato a cementare la narrazione dell’omicidio volontario.
I due speravano di reclutare colleghi a sostegno delle loro tesi e diffondevano voci sospettose sul comportamento del primario.
Quando nessuno supporta la loro teoria, passano a fabbricare prove (come le fialette vuote) per dare credibilità alla loro narrazione.
In uno dei casi, il Propofol era stato somministrato dopo la morte del paziente.
Il presunto movente, cioè l’urgenza di liberare
posti letto, viene smentito poi dai dati ufficiali: nei giorni delle morti sospette, l’ospedale non era sovraffollato.
E ancora:
“L’istruttoria dibattimentale ha dimostrato che il dottor Mosca era animato da propositi conservativi, non distruttivi.”
Nel febbraio 2024, la Procura Generale di Brescia decide di non impugnare la sentenza. L’assoluzione diventa definitiva.
Subito dopo, la difesa di Mosca, cioè gli avvocati Elena Frigo e Michele Bontempi, presenta istanza per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione.
E ad aprile 2025 arriva la decisione:
La Corte d’Appello di Brescia riconosce al medico un indennizzo di 104.400 euro.
La motivazione? Ascoltate con attenzione:
“Gravità del titolo di reato, detenzione domiciliare in condizioni dure, sospensione dal lavoro, esposizione mediatica e lesione della reputazione per un soggetto incensurato, completamente estraneo all’ambiente giudiziario.”
Calcolati 200 euro per ogni giorno di arresto. 522 giorni.
Ma non viene riconosciuto il danno morale pieno.
I giudici spiegano che non è dimostrabile la perdita di occasioni professionali o formative.
Il verdetto parla di “ristoro”, non di “risarcimento”.
Oggi Carlo Mosca ha ripreso a lavorare. È tornato in corsia.
Opera nel servizio 118 degli Spedali Civili di Brescia.
Ricostruisce, giorno dopo giorno, una reputazione infangata da accuse false.
Quanto ai due infermieri, la loro posizione è ora al vaglio della Procura per il possibile reato di calunnia.
E a chi gli chiede se porta rancore, Mosca risponde così:
“Non serbo rancore. Penso che la situazione sia sfuggita di mano. Ma non mi interessa più. Quello che conta per me è riabbracciare mia figlia, che ha visto il papà solo cinque volte in un anno e mezzo.
E tornare al mio lavoro, in quell’ospedale dove sono cresciuto.
È stata durissima. Ho perso un anno e mezzo di vita.
Ma ora è il momento di ripartire.”
La storia di Carlo Mosca è una storia vera
di giustizia tradita e poi riconquistata.
Di quanto possa costare la verità, quando il sistema sbaglia.
Ma è anche la prova che rialzarsi è possibile.
Perché la dignità, seppure calpestata, può tornare a splendere.