Diario elettorale. Parte III

Mi soffermerò su tre temi: (i) la particolare forma di “democrazia plebiscitaria” oramai affermatasi in Italia e, forse, in via di affermarsi altrove; (ii) la demonizzazione di Giorgia Meloni e del sul partito, a mio avviso esagerata, almeno in termini relativi; (iii) l’ennesima occasione perduta da Matteo Renzi.

La democrazia plebiscitaria

I fatti di queste settimane parlano chiaro: circa 150-200 politici di professione stanno compilando le liste dei candidati ai 600 posti disponibili in Parlamento (400 Camera e 200 Senato). L’esistenza di sondaggi piuttosto precisi e di informazioni storiche sui comportamenti elettorali nei vari collegi permette di prevedere con accuratezza – direi al 90%, a meno di grandi sorprese nel prossimo mese – come si distribuirà il voto sia nei collegi uninominali che in quelli proporzionali. Questi fatti implicano che, con altissima probabilità, dove ed in che posizione della lista si viene candidati determina l’elezione finale.

Questo suggerisce un gioco che, forse, qualcuno con più tempo di me potrebbe fare. Estrarre dalle migliaia di “candidati apparenti” un elenco di circa 700 “candidati veri”. Controlleremo poi il giorno 27 settembre quanti dei 600 parlamentari effettivamente eletti erano contenuti in quella lista di previsioni. Il voto a cui circa 50 milioni di italiani sono chiamati il giorno 25 settembre serve SOLO a risolvere questa marginale incertezza.

Vi son buone ragioni per credere che gli “esperti elettorali” dei grandi partiti abbiano già fatto o stiano facendo il gioco che ho appena suggerito: la composizione del prossimo Parlamento l’hanno già stabilita loro, prima del voto. La democrazia elettorale italiana funziona così da svariate legislature e la riduzione del numero di parlamentari ha solo reso il tutto più esplicito.

Questa forma di democrazia plebiscitaria – in cui l’elettore può solo prendere o lasciare il menù predisposto dai 150-200 “padroni dei partiti” – è il punto di arrivo d’un processo di trasformazione dell’assetto costituzionale reale che iniziò circa 40 anni fa. Allora l’assetto politico-istituzionale della Prima Repubblica si dimostrò incapace, fallito il “Compromesso Storico”, di gestire le trasformazioni avvenute tra la fine degli anni ’60 e quella degli anni ’70 e, sotto la guida di Craxi, si diresse silenziosamente verso una forma di presidenzialismo tecnocratico.

Presidenzialismo, perché i processi di selezione democratica interni ai grandi partiti si dissolsero rapidamente assieme ai medesimi – molti forse non sanno o non ricordano ma sia la DC che il PCI oscillavano fra 1,5 e 2 milioni di iscritti – per venire sostituiti da leader suppostamente “carismatici” e dalle loro segreterie, composte di fedeli ed obbedienti assistenti. Tecnocratico perché sia i fenomeni di malaffare che il progressivo scadimento della qualità dei parlamentari (conseguenza della dissoluzione dei processi di selezione meritocratica interna ai partiti di massa) trasferirono di fatto il potere legislativo e regolatorio alle burocrazie dei ministeri centrali.  

Il ruolo di quest’ultime nella gestione effettiva dello Stato divenne esplicito con l’intervento “tecnico” di salvataggio del 1992-94, poi di nuovo nel 1995 e via di seguito sino al recente governo Draghi. Nel frattempo si è continuato a vaneggiare di “Seconda Repubblica” senza che questa venisse mai ad avere una propria definizione sia costituzionale che in termini di leggi e regolamenti elettorali. Basti guardare al continuo blaterare di “premier eletto dai cittadini”, l’invenzione delle coalizioni con il candidato primo ministro che poi si realizza solo per caso. Il risultato: un sistema di fatto “signorile” in cui una vera e propria “casta auto-perpetuantesi” (protestate fino a che volete, ma quel termine ci sta ed è giustificato dai fatti) coopta, seleziona e riproduce se stessa lasciando ai 50 milioni di elettori solo l’opzione della ratifica in blocco o della negazione in blocco. Niente altro.

Forse tutto questo è inevitabile, e lo dico molto seriamente. Tendenze simili – anche se neanche lontanamente così accentuate – si possono rintracciare in altri paesi liberal-democratici europei e negli USA. Non posso, quindi, escludere che in questo l’Italia abbia solo anticipato i tempi essendo entrato in crisi da noi, molto prima che altrove (negli anni ’70 vs inizio di questo secolo), quell’equilibrio socio-politico ed istituzionale che, nel secondo dopoguerra, aveva garantito crescita, consenso sociale e partecipazione politica come non si erano mai viste prima.

Ma, d’altro canto, non vi è dubbio alcuno che quanto ho brevemente descritto sia oggi molto più tipico nei paesi autocratici ed autoritari che in quelli liberal-democratici. Insomma, può essere che stiamo solo mostrando il futuro della democrazia compiuta nell’era della comunicazione digitale, del “uno vale uno” e delle tecnocrazie ministeriali che tutto controllano e possono, ma può che essere, invece, che ci siamo incaminati verso una forma tutta italiana di autocrazia dove l’esercizio dell’attività democratica si limita a due elementi: concorrere per essere cooptati nella elite politico-tecnocratica dirigente e vidimare, plebiscitariamente, le scelte di questa ogni 5 anni.

Una breve nota non è luogo per discutere approfonditamente un problema tanto complesso e vorrei evitare di dare l’impressione d’essermi convinto che l’Italia sia già una democrazia autoritaria, non lo è. È una democrazia signorile-plebiscitaria nella quale l’apparente grande partecipazione al dibattito pubblico (in nessun paese che io conosca si parla tanto e tanto intensamente di politica tutti i santi giorni) ha un ruolo di puro sfogatoio. Le decisioni vere, il vero potere decisionale, risiede in un circolo molto ristretto di circa 1000-1500 persone (politici e alti burocrati) dentro al quale non si viene eletti/selezionati a seguito di competizioni elettorali ai vari stadi dell’amministrazione dello stato ma dentro al quale si viene cooptati da chi già vi appartiene. Come stanno per essere cooptati Crisanti e Fittipaldi: per decisione dei leader del mandarinato. L’elettorato o ratifica l’atto compiuto o si astiene.

 

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