Le importazioni riducono il Pil? L’equazione fraintesa

Anche chi non ha mai studiato economia si sarà trovato di fronte alla formula Y=C+I+G+NX. Cos’è? Ai più, è nota come “l’equazione del Pil”. Questa famigerata formuletta è ovunque. Chi parla di macroeconomia di fronte a un pubblico generalista a volte parte da qui. Chi porta proposte politiche per aumentare il Pil spesso le giustifica partendo da questa equazione. E siccome la matematica non è un’opinione, tutto ciò che segue da questa equazione deve essere vero.

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Eppure, la formula può rivelarsi ingannevole. E vista la sua ubiquità, occorre stare in guardia. Gli errori comuni sono di due categorie. Anzitutto, spesso si sbaglia nel definire le variabili, fraintendendo cosa includono e cosa escludono. La seconda categoria di errore invece è di interpretazione: nel derivare le implicazioni di questa equazione, si trattano le variabili come se fossero indipendenti tra loro.

Tra le tante affermazioni basate su questi fraintendimenti, oggi voglio dedicarmi alla seguente: le importazioni riducono il Pil. Tratterò entrambe le tipologie di errore in questo contesto, partendo dall’illustrare cosa descrive questa equazione.

Cos’è “l’equazione del Pil”

Y=C+I+G+NX

A sinistra, la variabile Y denota il Pil stesso, che sarebbe il valore di mercato (quindi il prezzo) di tutti i beni e servizi finali prodotti in un dato paese in un certo arco temporale. Si noti: quando parliamo di Pil stiamo parlando di beni e servizi prodotti, non consumati!

A Destra invece abbiamo le variabili C, I, G, e NX. La C rappresenta i consumi, la I gli investimenti, la G la spesa governativa, mentre NX sta per esportazioni nette, ovvero esportazioni meno importazioni (il tutto espresso in euro, o dollari, o qualsiasi altra valuta si voglia utilizzare).

Quindi, le importazioni nell’equazione entrano col segno meno. Vengono sottratte. Tutte le altre voci invece vengono sommate. L’idea che le importazioni riducano il Pil è generata proprio da questa osservazione. Ma è vero?

Per rispondere occorre anzitutto capire cos’è quindi questa “equazione del Pil”. È un’identità contabile che decompone il Pil in varie voci di spesa. Ovvero, un’equazione vera per definizione, in cui gli elementi della parte destra e quelli della parte sinistra sono il medesimo oggetto, espresso in due modi diversi.

Perché quest’equazione è un’identità contabile? Perché si basa sul seguente ragionamento: i vari beni e servizi finali prodotti e che hanno un valore di mercato (un prezzo) sono anche stati venduti. E il prezzo è lo stesso sia per chi compra che per chi vende. Dunque, il valore di mercato dei beni prodotti deve equivalere al valore di mercato dei beni acquistati. Di conseguenza, la parte destra e la parte sinistra dell’equazione sono la stessa cosa.

Apro una parentesi lunga un paragrafo. Così come il valore di mercato dei beni prodotti deve equivalere quello dei beni acquistati, allo stesso modo esso deve equivalere anche alle entrate di chi produce questi beni e servizi. Infatti, “l’equazione del Pil” sopracitata non è l’unica identità contabile possibile. Ad esempio, ne esiste un’altra che decompone il Pil nelle varie voci di reddito (lordo), ovvero profitticompensazioni da lavorointeressi, etc. Ma, questa è meno usata nei dibattiti politici. Perché? Azzardo una risposta provocatoria: non sia mai che usando gli stessi ragionamenti che usiamo con quella basata sulla spesa, ci salti in testa di affermare che aumentando i profitti o gli interessi aumenteremmo il Pil. Per carità! Non vorremmo mai che la matematica ci consigli di arricchire i “padroni”, o i “banchieri ebrei”, o qualunque altro gruppo che l’orientamento politico del caso ci invita ad aggredire. Per evitare fraintendimenti, chiarisco subito che anche questo ragionamento sarebbe errato, per le stesse ragioni che illustrerò più avanti.

Importazioni: dove compaiono davvero nell’equazione?

Per capire se le importazioni sottraggono dal Pil occorre soffermarsi sul significato di ciascuna variabile. È vero che le importazioni entrano negativamente nella variabile NX. Ma l’errore commesso da quelli che si soffermano su questo aspetto è di dimenticare che le importazioni entrano positivamente in tutte le altre variabili.

Infatti, quando acquistiamo olive dalla Grecia, l’importo che appare negativamente sotto la voce NX compare positivamente sotto la voce C. Analogamente, quando le imprese italiane acquistano macchinari di produzione tedesca, questo valore sottrae da NX, ma allo stesso tempo aggiunge a I. Quando il nostro governo acquista aerei militari dagli Stati Uniti, questa spesa compare sia sotto NX, che sotto G, con segno opposto in modo che le due si cancellino tra loro.

Dunque, una maniera utile per ragionare sulla questione è questa: NX è un termine di correzione che appare nell’equazione perché stiamo misurando il Pil, una misura della produzione, utilizzando una serie di variabili che accorpate compongono la nostra spesa.

In assenza di commercio internazionale, spesa e produzione, per come definite sopra, si equivalgono. Se però si commercia con l’estero e vogliamo catturare il valore di mercato dei beni e servizi prodotti in Italia partendo dalla spesa in beni e servizi in Italia, dobbiamo apportare due correzioni. In primo luogo, dobbiamo aggiungere le esportazioni, che sono produzione italiana ma spesa tedesca, francese, inglese, etc. Poi, dobbiamo togliere le importazioni, poiché pur essendo spesa italiana, non fanno parte della produzione italiana, bensì sono parte del Pil tedesco, francese, inglese, etc.

Dunque, se tutti noi italiani decidessimo di ridurre gli acquisti di olive greche senza alcuna altra modifica, cosa succederebbe al Pil? Assolutamente nulla. La parte sinistra dell’equazione rimarrebbe invariata, mentre nella parte destra risulteranno soltanto dei cambiamenti nella composizione: la variabile importazioni calerebbe aumentando la variabile di esportazioni nette. Ma la variabile consumi calerebbe del medesimo importo, lasciando la somma invariata.

Come si interpreta l’equazione del Pil?

Il secondo problema che ci dobbiamo porre è quello dell’interpretazione di questa equazione. Considerate il mio paragrafo precedente: se decidessimo di ridurre gli acquisti di olive greche senza alcuna altra modifica, il Pil non varierebbe. La parte essenziale è “nessuna altra modifica”. A questo qualcuno potrebbe obiettare che la modifica comporterebbe un aumento degli acquisti di altri beni di produzione locale. La domanda fondamentale diventa: quale dei due scenari è più ragionevole?

Probabilmente nessuno dei due, ma la questione è complicata da risolvere. La cosa fondamentale da capire è che la famosa “equazione del Pil” non ci informa su cosa possiamo aspettarci in seguito all’introduzione di dazi (una tassa sulle importazioni che disincentiverebbe l’acquisto di beni prodotti altrove) o a un divieto di importare determinati beni.

Questa equazione da sola non è sufficiente per rispondere a questo tipo di domanda. Chi invece la usa, da sola, a tale scopo sta imponendo implicitamente delle restrizioni molto forti al comportamento che si aspetta dai vari attori, e alle capacità produttive delle varie imprese. L’affermazione secondo cui una riduzione delle importazioni aumenta il Pil è quindi fondata su ipotesi di base non specificate. Sono realistiche?

Elenco alcune delle ipotesi implicite che sorreggono tale idea. Anzitutto, si presume che in Italia ci sia sufficiente capacità produttiva non utilizzata per aumentare la produzione di merci e servizi dal valore finale pari a quello dei beni importati di cui si vuole fare a meno. Ci dovranno quindi essere una serie di macchinari non utilizzati a pieno regime. Dovranno esserci capannoni non utilizzati o sottoutilizzati, o almeno capacità di costruirne di nuovi in un tempo ragionevolmente breve. Bisognerà inoltre assicurarsi che le importazioni ridotte non includano beni o servizi intermedi utilizzati nella produzione locale. Dovranno esserci lavoratori disoccupati o sottoccupati ma piuttosto produttivi. Ci dovrà essere capacità tecnologica per produrre tutti questi beni sostitutivi.

Ma non solo deve esserci questa capacità produttiva latente, ma bisogna anche presumere che la mera scomparsa di questi prodotti stranieri dagli scaffali sia in grado di renderla operativa. Ovvero, bisogna presumere che i vari ostacoli al pieno utilizzo di risorse siano tutti dovuti a una mancanza di domanda e non, ad esempio, a imperfezioni nella gestione delle risorse, barriere imposte dalla burocrazia e regolamentazione, mancata corrispondenza geografica tra luoghi di produzione e disponibilità dei lavoratori disoccupati, mancata corrispondenza tra le competenze dei lavoratori inoccupati e quelle richieste per certi tipi di produzione, eccetera.

L’affermazione richiede anche ipotesi che riguardano il lato della domanda, e di conseguenza anche dell’offerta di lavoro. Ovvero, si presume che il consumatore, privato della possibilità di acquistare certi beni stranieri riversi tutto ciò di non speso in beni e servizi locali. Si presume che non sostituisca le importazioni ora proibite con altre importazioni non proibite e di cui magari non vogliamo privarci perché particolarmente utili. Si presume che nonostante i beni che preferivano siano ora assenti dal mercato, questi continuino a voler lavorare e guadagnare quanto prima. Se così non fosse, la misura potrebbe anche avere l’effetto di ridurre la forza lavoro.

È realistico che si verifichi tutto questoThe answer, my friend, is blowing in the wind. Quello che mi preme sottolineare è che non possiamo dare per scontato che la risposta sia sì.

Dunque, cosa bisogna fare per risolvere l’annosa questione? Non c’è altra possibilità che rivolgersi alla teoria economica. Ciascun modello teorico, infatti, presume un comportamento da parte dei vari attori che si troveranno a reagire al cambiamento di fattori esterni, come ad esempio un cambio normativo che impedisce o disincentiva certe importazioni.

Certo, nessuna teoria è perfetta. Nessun modello teorico è perfettamente corrispondente alla realtà. Ma d’altra parte, una maniera di rispondere a questa domanda esulando dalla teoria non esiste. Chi vuol far credere il contrario mente e nasconde sotto al tappeto ipotesi che dovrebbero invece essere il centro del dibattito.

 

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