La libertà d'espressione è un problema intrattabile

Esistono dei criteri rigorosi per delimitare universalmente e ragionevolmente certe libertà? Vediamo perché la libertà d'espressione - e i suoi eventuali limiti - rappresenta un nodo filosofico impossibile da sciogliere e un aggeggio concettuale difficile da maneggiare.

Autore: Jonas Gratzer Ringraziamenti: Getty Images Copyright: Jonas Gratzer info@jonasgratzer.com

Sono gli ultimi giorni di giugno 2023, all’inizio dell’Eid al-Adha (tre giorni di festa del sacrificio celebrata dai musulmani in tutto il mondo), quando il rifugiato iracheno di 37 anni Salwan Momika brucia un Corano dopo averlo calpestato e ridotto in brandelli davanti alla moschea di Stoccolma, la Medborgarplatsen Camii, nel quartiere centrale di Sodermalm. Il tutto in uno spettacolo autorizzato e vigilato delle autorità pubbliche, le stesse che poi aprono un’indagine per “agitazione contro un gruppo etnico”, denunciando Salwan per incitamento all’odio razziale. Durante il rogo, in molti si radunano in segno di protesta, provocando alcuni disordini subito placati dalla polizia. Il primo ministro svedese Ulf Hjalmar Kristersson dichiara che la decisione della polizia di consentire il rogo era “legittima ma inappropriata”, soprattutto in seguito a una sentenza della Corte d’Appello per cui, sulla base di un diritto costituzionalmente riconosciuto, è considerato sbagliato il rifiuto alle manifestazioni da parte della forza pubblica per un rischio attentato.

Non è la prima volta che questo accade in Svezia. A gennaio 2023 era stata la volta di Rasmus Paludan, avvocato danese fondatore del partito di estrema destra Stram Kurs, che aveva dato fuoco al testo sacro musulmano davanti all’ambasciata turca, causando un seguito di proteste durate settimane. Dopo il gesto di Salwan Momika, il Marocco richiama il suo ambasciatore in Svezia, condannando il gesto come “offensivo e irresponsabile” tramite un comunicato stampa. Il rogo innesca nelle settimane successive un grande dibattito, com’è ovvio aspettarsi: da una parte c’è chi sostiene che gesti simili debbano essere constentiti e accettati, almeno in Stati formalmente laici che si dichiarano liberali sul fronte civile, politico e sociale; dall’altra, voci contrarie si levano contro la mancanza di rispetto verso le sensibilità religiose. Non è difficile immaginare, d’altronde, simili reazioni anche nel caso inverso, in cui venga bruciata una Bibbia o una Torah sia in paesi di cultura cristiano-giudaica che non.

Questo evento fornisce un assist allettante per alcune riflessioni sulla libertà d’espressione. Tra le molte libertà che uno Stato liberaldemocratico e laico accorda (o dovrebbe accordare) la domanda a questo punto è più che mai pregnante: qual è il limite della libertà d’espressione? Mi spiego meglio: le questioni etiche inerenti la libertà (dal rapporto libertà-sicurezza alle esigenze di governance che minano le libertà individuali) sono intrinsecamente problemi scabrosi. Non è oggetto di questo articolo discutere se sia giusto o meno protestare in modi anche particolarmente forti contro un sentimento religioso o contro specifiche culture. Per definizione, chi assiste o viene al corrente del gesto ed appartiene alla cultura colpita si sentirà quantomeno coinvolto, se non offeso e infastidito. Non serve una laurea in filosofia per intuire che questa sia una mancanza di rispetto verso altre sensibilità. Tuttavia, più che mai in questi anni, con la woke culture da un lato e un certo puritanesimo religioso e a tratti reazionario dall’altro, la questione del rispetto altrui si è fatta dirimente almeno quanto la doverosa libertà individuale di dire ciò che si vuole ed esprimere il proprio pensiero.

La domanda di sopra, infatti, non è intesa in senso strettamente deontologico, o etico-normativo (cioè che confine dovremmo porre giuridicamente alla libertà di espressione), ma in senso etico-analitico, ossia: esistono dei criteri rigorosi per delimitare universalmente e ragionevolmente certe libertà? Che ora si parli di libertà d’espressione, invero, poco importa: lo stesso quesito vale per pressoché tutte le forme di libertà. Allora per provare a rintracciare un criterio di demarcazione tra ciò che è lecito (e rientra nella libertà riconosciuta) e ciò che non lo è, può essere utile operare un ragionamento per casi, in cui prenderò in prestito alcuni strumenti dalla logica formale e dall’analisi di scenario.

Autore: JONATHAN NACKSTRAND Ringraziamenti: AFP via Getty Images

Caso 1: il criterio del rispetto

Spesso, quando qualcuno sfrutta la scusa della libertà d’espressione per dire la qualunque, offendere, imprecare, diffamare, calunniare o usare il turpiloquio davanti a chi non gradisce le volgarità, si sente rispondere che la libertà di parola non è “dire il cazzo che vuoi”, ma ha dei confini che risiedono nel rispetto verso l’altro. Sulla scia del kantiano “la mia libertà finisce dove comincia la tua”, è così possibile delineare una sorta di sfera di libertà intorno ad ogni consociato: tali bolle rappresentano lo spazio della libertà individuale dei cittadini e, delimitandosi tra loro, evitano il conflitto. Si tratta di un’operazione simile a quella proposta da Rawls, che nel secondo principio della sua teoria della giustizia recita: «Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti».

Rintracciando allora la demarcazione nel rispetto della sensibilità altrui si va a rafforzare tanto un ideale di giustizia sociale, quanto lo storico principio del NAP (Non-Aggression Principle), ossia il principio di non aggressione: il pensiero libertario, infatti, fonda la propria moralità unicamente sul divieto di invadere o aggredire la proprietà e lo spazio di libertà altrui (e sulla conseguente libertà di rispondere in qualunque modo all’invasione/aggressione delle proprie). Nell’etica libertaria, ogni cosa che sia percepita come un’invasione o un’aggressione alla propria proprietà (che include anche il proprio corpo, e dunque la propria vita e la propria libertà) è un’infrazione del NAP e avrà delle conseguenza commisurate, sulla base di come l’aggredito ritiene di dover rispondere per riconquistare la proprietà intaccata e ripristinare il giusto stato di cose.

Ogni compressione di libertà è, in generale, mal digerita da chiunque (liberali e libertari su tutti), ma il compromesso sociale di dover convivere tra molti individui traduce un’ideale libertà originaria e assoluta nella minore compressione di libertà possibile: ognuno è massimamente libero nella misura in cui la sua libertà non invalida la mia o non lede la mia persona. In questo framework etico, gesti come l’imprecazione, la blasfemia e il rogo dei testi sacri sono da condannare perché da un lato gli autori conservano la libertà e la legittimità di compierli, ma se ne assumono le conseguenze (anche solo sociali) che ne derivano; dall’altro lato, tuttavia, si configura un’oggettiva probabilità di offendere, indisporre o ferire molte persone, invadendo così il loro spazio di libertà senza il loro consenso.

Se da una parte c’è una razionalità disarmante in questa semplice deontologia, dall’altra il criterio del rispetto come demarcazione della libertà in generale (e della libertà d’espressione in particolare) si presta a derive problematiche. Mentre può sembrare un fatto di buon senso condannare gesti pubblici notoriamente offensivi per molte persone (come bestemmiare in pubblico, sapendo che molti credenti si sentiranno toccati), confinare la libertà d’espressione al rispetto della sensibilità altrui vuol dire governare la libertà in funzione di ogni sensibilità possibile (nota e non nota). Ciò finisce per imboccare una china pericolosa e scivolosa per cui, partendo da un’immaginaria situazione iniziale in cui si può dire/fare tutto, si finisce per sottrarre man mano pezzi di libertà per ogni nuova sensibilità che emerge e ostacola la libera espressione: un esempio tipico sono proprio il wokeism e il politically correct, che pretendono che ognuno centellini e organizzi chirurgicamente ogni discorso onde evitare di offendere qualche sensibilità particolare intorno a sé. La fallacia è qui evidente: non si può condannare moralmente un discorso che offende inintenzionalmente una sensibilità che non si conosce a priori, ma solo a posteriori.

Autore: conejota Ringraziamenti: Getty Images Copyright: conejota

Se non so che il mio interlocutore ha un particolare disagio per certe questioni di cui sto parlando, non sto mancando di rispetto (almeno, non volontariamente). Manco intenzionalmente di rispetto se sono già al corrente che è meglio non toccare certi tasti e lo faccio comunque fregandomene. Se le persone interessate non mi comunicano sin da subito i loro problemi e le loro fissazioni, mi ritengo libero fino a ulteriore aggiornamento: la scarsità di informazione determina che io non commetta “peccato”, perché non ci sono né intenzione né conoscenza del problema. L’incremento di informazione nelle relazioni interpersonali, cioè la chiarezza e la comunicazione tra individui, è l’unica chiave per una libertà d’espressione veramente etica: non parlerò di quell’argomento se chi ho davanti prova fastidio a sentirlo, ma tenterò di avere tatto perché mi è personalmente e socialmente conveniente mantenere un rapporto positivo ed equilibrato e, di base, non è desiderabile infastidire gli altri.

In ogni caso, in anni in cui le specifiche sensibilità individuali vanno aumentando progressivamente e ognuno ha la sua gamma di temi delicati, diventa difficile gestire la libertà d’espressione. Piegandola fondamentalmente sul criterio del rispetto altrui, si finisce per comprimerla al punto che ognuno dovrebbe calcolare perfettamente cosa dire per essere più inclusivo e meno offensivo possibile: uno scenario, oltreché distopico, francamente irrealizzabile. Il compromesso sociale deve venire da ambo le parti e, oltre allo sforzo della parte che si esprime, la parte di volta in volta offesa deve andare incontro all’interlocutore, capendo che nessuno può dosare così perfettamente un discorso e tollerando qualche scivolone involontario o inconsapevole. La brutta china che altrimenti si genera, nel momento in cui il mosaico di sensibilità è talmente composito e complesso, è che la libertà d’espressione si annulli in favore di un “socialmente corretto” a tutti i costi che da una parte realizza artificiosamente una società perfettamente rispettosa, ma dall’altra neutralizza l’individualità: uno scenario censorio, dispotico e autoritario sia bottom-up che top-down.

Caso 2: il paradosso della libertà

Se non si adotta il criterio del rispetto altrui come discrimine per gesti riconosciuti liberi e gesti considerati illeciti, l’alternativa, dall’altra sponda della prassi sociale, è una libertà d’espressione totale e assoluta. In altre parole, la prospettiva opposta considera libertà d’espressione (e, nel caso generale, la libertà tout court) la totalità delle cose che si possono esprimere e dire: ogni espressione effettiva rientra nella libertà di pensiero e di parola, a prescindere da quanto possa essere offensiva, indelicata, insensibile o impopolare. Un approccio che potremmo definire feltriano o crucianiano, insomma. In tale cornice, allora, gesti come la bestemmia pubblica, la provocazione o la satira di Charlie Hebdo sono assolutamente accettabili (comunque non senza ripercussioni ed esternalità negative) in quanto alla libertà di offendere è corrisposta un’eguale libertà di rispondere: se la libertà di espressione (o la libertà in generale) è totale, lo è per tutti (altrimenti non è totale), con ogni rischio e vantaggio che ciò comporta.

Bene, se questa è la posizione prediletta dai libertari di destra e di sinistra, anch’essa conduce a contraddizioni e cortocircuiti logici e morali. In particolare, per quanto si possa accordare ragionevolezza anche in questa istanza, una libertà concepita in modo assoluto e illimitato produce una cosa che mi piace chiamare il paradosso della libertà (sotto formalizzato tramite un pessimo incrocio tra flowchart decision tree).

Il paradosso della libertà spiega perché una libertà assoluta e non autolimitata (come nel caso del motto kantiano) sia di per sé problematica e inattuabile, sia dal punto di vista logico che dal punto di vista morale. A parte alcuni anarco-capitalisti, infatti, neanche i libertari si spingono a questo, considerando come criteri della libertà individuale e della coesione sociale il volontarismo e il NAP.

Un problema difficile: irrisolvibilità, indecidibilità, relativismo e intrattabilità

Ma allora questa libertà d’espressione come si configura e come si può concepire? Prendendo in prestito alcuni concetti e strumenti dall’informatica teorica e dalla logica computazionale, la libertà d’espressione pare essere propriamente una versione etica dei problema intrattabili: in logica matematica, infatti, l’intrattabilità di un problema è la difficoltà di risolverlo in modo efficiente. In particolare, un problema è considerato intrattabile se non esiste un algoritmo che possa risolverlo in un tempo ragionevole per tutte le possibili istanze del problema. Se anche dovesse esistere una procedura algoritmica per risolvere il problema, il tempo necessario per farlo aumenterebbe esponenzialmente con la dimensione del problema, rendendo impraticabile la risoluzione di istanze di grandi dimensioni. Stiamo chiarmente rubando strutture e concetti da discipline formalizzate come la matematica, la logica e l’informatica, ma il concetto, trasposto in filosofia morale, è calzante

Ciò, tuttavia, vale nel caso in cui il problema della libertà d’espressione abbia delle soluzioni. L’impressione, però, è che si tratti di un problema irrisolvibile, nel senso stretto di un problema che non ha soluzione certa e oggettiva. Esagerando, potrebbe trattarsi addirittura di un problema indecidibile, per cui cioè non esiste una percorso algoritmico o euristico per sapere se ha soluzione o meno. L’indecidibilità e l’irrisolvibilità sono infatti due concetti correlati ma distinti: l’indecidibilità è l’impossibilità di determinare, tramite un algoritmo decisionale, se una data istanza di un problema ha una soluzione o meno, mentre l’irrisolvibilità è l’impossibilità di trovare una soluzione a tutte le istanze di un problema tramite un algoritmo.

La libertà d’espressione (come il generale problema della libertà) non è insomma risolvibile in modo universale: non ha una soluzione conclusiva, definitiva, valida per tutti e oggettiva. Questo per l’ovvio motivo (sì, è la scoperta dell’acqua calda) che i problemi morali ed etici dipendono dal contesto in cui un certo insieme di norme, prassi e convenzioni di produce. Banalmente, l’etica di una comunità è prodotta dall’assenso dato dalla comunità stessa a certe regole e condotte e non ad altre. Di conseguenza, il criterio di demarcazione della libertà d’espressione non solo è variabile e fluido, ma varia in base al corpo sociale, al momento storico, alla mentalità dominante, alla sensibilità di volta in volta comune e alle contingenze locali e temporali: fin dove si possa spingere la libertà o cosa sia tollerato e cosa no lo stabilisce il consenso sociale.

La definizione della libertà d’espressione viene quindi a configurarsi come un un problema relativistico, cioè privo di una soluzione universale e assoluta, ma solo convenzionale: sono le convenzioni adottate, continuamente fatte e disfatte dalla società nel corso della sua storia e dei suoi cambiamenti culturali, a fissare i comportamenti accettati e non. Ciò significa che la soluzione dipende dal contesto, dalle circostanze e dalle opinioni personali delle persone coinvolte e le soluzioni possono variare a seconda delle convinzioni soggettive e dei valori morali e culturali predominanti. In questi casi, non esiste una soluzione definitiva e assoluta, ma solo una serie di possibili soluzioni che possono essere considerate accettabili in base alle circostanze: dipende da noi accordare l’etica normativa che preferiamo, e per farlo serve maggiore simmetria informativa e maggiore consapevolezza civile e politica. In ogni caso, viva la libertà, anche quando fa discutere!

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