A favore dell’energia nucleare

In difesa dell'energia nucleare con dati, fatti e logica.

Autore: zhongguo Copyright: zhongguo

Chi scrive un articolo a favore dell’energia nucleare sa bene che, prima o dopo, dovrà per forza addentrarsi in una disamina degli incidenti passati, causa primaria di irrigidimento e rifiuto tra la popolazione. La mente subito corre a Chernobyl (1986) o a Fukushima (2011). Alcuni eventi però, anche gravi, non hanno nulla a che fare con le centrali termo-nucleari. È il caso di quanto accaduto a Goiânia (Brasile, 1987), quando una macchina per la radioterapia contenente Cesio 137 fu rubata da un ospedale abbandonato e aperta senza alcuna precauzione contaminando gravemente più di 250 persone. Fu l’incidente nucleare più grave dopo il disastro di Chernobyl. 

Tendiamo ad ignorarlo, ma gli ospedali, anche quelli italiani, custodiscono diversi materiali radioattivi. Difficile da credere, il 40% dei rifiuti nucleari destinati al nuovo deposito nazionale proviene dal settore medicale ed è per questo che anche Stati come la Norvegia, senza centrali nucleari alle spalle, sono dotati di siti di stoccaggio. Nonostante le polemiche nessuno si sognerebbe mai di chiudere la medicina nucleare o i reparti di radioterapia. Il global warming è un fenomeno antropico, eppure quando si parla di ambiente non riusciamo ad essere altrettanto lucidi.

Il nucleare è ad oggi la forma più pulita di produzione dell’energia. Per molti può suonare come una bestemmia, complice il bombardamento no-vax/TAV/TAP/GMOs/nuclear e chi più ne ha più ne metta di cui è vittima la discussione pubblica italiana, ma in ambito internazionale si sono già spesi fiumi di inchiostro sulla fittizia sostenibilità della svolta green, non mancano inchieste autorevoli ben poco lusinghiere che comprendono giganti dell’elettrico e compagnie petrolifere. La morale collettiva vedrebbe pannelli solari e pale eoliche qualitativamente migliori perché scevri da inquinamento, ma questo vale solo per la fase di conversione dell’energia in sé. Produzione e smaltimento delle infrastrutture sono tutto un altro discorso, basti pensare che in un breve futuro si prevede che una pala eolica necessiterà di 1Kg di Ittrio ogni MW prodotto. Da qui nasce l’enorme problema inerente le terre rare e lo sfruttamento, ambientale ed umano, che ha già visto schierarsi organizzazioni umanitarie del calibro di Amnesty International.

Greenwashing. È così definito il metodo attraverso cui un’azienda o un settore, sfruttando un’immagine ecologista (environmentally friendly) che non corrisponde alla realtà, riesce a vendere di più ed imporsi sul mercato.

C’è poi la questione degli accumulatori, la natura discontinua di queste fonti energetiche rende indispensabile l’impiego smodato di batterie, per accumulare energia quando mancano ad esempio sole o vento. Questa, non essendo comunque stoccabile ad oltranza e per un tempo illimitato, rischia quindi di non poter essere più disponibile quando ve n’è maggior bisogno. Contando anche il cosiddetto capacity factor per eguagliare la produzione annuale d’energia di una centrale nucleare di modeste dimensioni servirebbero più di 40km2 di pannelli solari e una rete enorme di infrastrutture, ovviamente soggetta a manutenzione periodica. Vista infatti la modica quantità prodotta da una singola fonte è necessario moltiplicare le installazioni e di conseguenza creare infrastrutture (cavi, centrali ecc.) ben più articolate e costose, sia in termini economici che ambientali. A questo si somma la scarsissima qualità delle celle fotovoltaiche generalmente impiegate, per lo più di fattura cinese, che raramente superano i 25 anni di vita e che non vengono mai riciclate per questioni strutturali e di mercato.

A dispetto quindi delle credenze popolari non esiste ancora un metodo di produzione dell’energia completamente privo di impatto ambientale, va da sé che l’impatto stesso debba essere rapportato alla quantità di energia prodotta. Ed è qui che il nucleare vince di diversi ordini di grandezza.

Bruciando una tonnellata di petrolio si ottengono 41,86 GJ di calore, esprimibili anche sotto forma di 1TEP, tonnellate equivalenti di petrolio, unità di misura utilissima per finalità comparative. Per produrre 1TEP occorrono 1,5 tonnellate di carbone, 0,9 di metano, 2,2 di biomasse e… 0,000014 di uranio ovvero 14 grammi. Buona parte dei problemi che affliggono le democrazie in questo mondo è dovuta al non avere dimestichezza con gli ordini di grandezza, mischiamo spesso milioni con miliardi in economia, in medicina, in statistica.

Avevo pensato di inserire un grafico per visualizzare meglio la differenza di massa combustibile tra petrolio e uranio necessaria a produrre la stessa quantità d’energia, ma anche volendo disegnare una barra appena visibile per l’energia nucleare, alta un millimetro, per rappresentare quella dei combustibili fossili non sarebbe bastata una pagina lunga 70 metri.

Una manciata d’uranio pesante come il vostro smartphone è in grado di produrre l’energia di una quantità di petrolio pesante come un camion dei vigili del fuoco, comprendente una cisterna da 4000 litri piena d’acqua e 4 operatori a bordo. Due camion per il carbone, ancor oggi impiegato soprattutto nel centro-sud e in Sardegna. Può apparire superfluo ragionare con i regoli, ma trasporre nel quotidiano quest’enorme differenza ci consente di apprezzare appieno la smisurata quantità d’energia che la fissione nucleare è in grado di liberare. Il rapporto impatto ambientale/energia prodotta di conseguenza decresce esponenzialmente. Nessun’altra forma di produzione dell’energia, ad oggi, può lontanamente avvicinarsi a questi livelli e quindi un vero ecologismo passa necessariamente per l’impiego del nucleare.

Ogni anno nel mondo vengono emesse circa 33,5 miliardi di tonnellate di CO2 e il 9% dei decessi è riconducibile all’inquinamento dell’aria. Per i 2657TWh prodotti nel 2019 tramite energia nucleare la quantità di CO2  direttamente emessa è pari a 0. Così come è pari a 0 anche l’emissione diretta di particolato. Il fumo denso che fuoriesce dalle grandi ciminiere, che il cinema ci ha abituato a guardare con sospetto, è composto infatti da vapore acqueo, che non è ovviamente mai entrato in contatto con alcun componente radioattivo. A questo punto in genere i detrattori contestano che ad oggi l’estrazione e l’arricchimento dell’uranio non si effettuino tramite l’utilizzo di energia pulita. Questa obiezione è sicuramente significativa, ma non si capisce perché non si riscontri la stessa solerzia nel sottolineare che anche i componenti delle fonti “green” -che come abbiamo visto sono di consumo- condividano il medesimo problema, seppur non generando nemmeno lontanamente la stessa quantità di energia, occupando spazi incommensurabilmente più ampi e non garantendo la stessa continuità e scalabilità nel soddisfare il fabbisogno energetico.

Le energie rinnovabili si sono dimostrate una preziosa fonte in contesti decentralizzati, ma non possono sostenere il fabbisogno energetico di uno Stato industrializzato. I combustibili fossili, di contro, sono i maggiori responsabili del surriscaldamento climatico e dell’insalubrità dell’aria.

Purtroppo nessun metodo di produzione dell’energia è ad oggi completamente esente da conseguenze severe per l’uomo, anche mortali. Calcolando, in maniera molto cruda, il tasso mondiale di mortalità per quantità di energia prodotta passiamo da un massimo di 32,72 morti per TWh causati dalla lignite (carbone), ai 18,43 del petrolio, fino ai 2,82 del gas naturale, il killer meno determinato tra i combustibili fossili. Scendendo -e di molto- troviamo gli 0,04 dell’eolico e gli 0,02 di idroelettico e solare. L’energia nucleare si attesta nella parte bassa della classifica, con un punteggio di 0,07 -257 volte minore del petrolio- includendo i peggiori rapporti sugli eventi di Goiânia, Fukushima, Three Miles Island ed in particolar modo di Chernobyl.

L’impiego, anche parziale, del nucleare risulta ad oggi l’unica opzione percorribile per uno sviluppo sostenibile sul piano ambientale ed umano, un ecologismo che non sia ecofascismo ed una pianificazione lungimirante del futuro.

A causa di scelte dettate dall’emotivitá e dalla followership in Italia sono state chiuse le uniche 4 centrali attive -quella di Caorso dopo soli 3 anni dalla piena entrata a regime- ed è stata fermata la progettazione di nuove unità. Manca una classe dirigente esperta ed un novero di tecnici competenti, i relativi percorsi di studi ricevono comprensibilmente poche adesioni. Ad oggi la ripresa del programma nucleare, anche qualora avallata dalla pubblica opinione, comporterebbe costi enormi e tempi incerti. Potrebbe comunque rivelarsi vantaggiosa in uno Stato ambientalista e intenzionato a stilare il programma energetico dei prossimi 50 anni.

Le più comuni domande e le meno comuni risposte

Le radiazioni sono pericolose? Per motivi culturali tendiamo ad associare la parola “radiazioni” a qualcosa di automaticamente mortale o dannoso, in realtà dire che le radiazioni siano pericolose per la salute è come dire che i suoni siano pericolosi per l’udito. Si tratta di onde di diversa natura, ma entrambe comportano rischi per la salute solo a determinate frequenze, intensità, distanze e periodi di esposizione. Lo spettro elettromagnetico contiene diverse cose definibili con il termine “radiazione” e si estende dalle onde radio ai raggi gamma, passando per lo spettro visibile, ovvero quelle frequenze a cui i recettori oculari umani possono essere stimolati. Fuori dallo spettro visibile, che compone i colori della luce bianca, troviamo da una parte gli infrarossi (a cui continuano a rispondere i recettori dei gatti) e dall’altra gli ultravioletti (a cui sono sensibili i recettori delle renne artiche). Già la parte alta degli ultravioletti rientra tra le cosiddette radiazioni ionizzanti, ovvero quelle capaci di modificare la struttura delle molecole, compreso il DNA, causando danni ai tessuti. A questa categoria appartengono anche le radiazioni di tipo non elettromagnetico, ovvero le particelle alfa, beta e i neutroni (le radiazioni gamma sono invece elettromagnetiche). È questo il motivo per cui, quando siamo esposti al sole, le cellule dell’epidermide secernono un ombrello di melanina attorno al nucleo (in cui è racchiuso il DNA) per schermarlo, dando luogo all’abbronzatura. La grandissima maggioranza delle modifiche del DNA viene riparata o non comporta rischi, a volte tuttavia si verificano mutazioni che causano un’incontrollata proliferazione cellulare, è questo il caso del melanoma. Quotidianamente pesiamo i rischi con i benefici e nessuno si sognerebbe di vietare indistintamente l’esposizione al sole per prevenire i danni da raggi UV. Sarebbe quindi auspicabile che il termine “radiazioni” fosse impiegato dalla stampa con maggior serietà, slegandolo dall’uso sensazionalista e dall’accezione implicitamente catastrofista che l’ha contraddistinto. Ogni anno assorbiamo circa 3mSv di radiazioni, provenienti sia dagli isotopi radioattivi contenuti nella crosta terrestre sia dai raggi cosmici, che insieme compongono il fondo di radioattività naturale. Questo valore varia però moltissimo da luogo a luogo, ad esempio nella città iraniana di Ramsar, sul mar Caspio, si possono raggiungere di media i 10,2mSv/anno, con picchi di 260mSv/anno nell’acqua delle sorgenti termali in cui lo Scià di Persia si immerse per generazioni.

Le scorie sono un problema? Il combustibile esausto è riciclabile al 95% nei reattori nucleari di IV generazione. Quello che -per svariati motivi- non è riutilizzato per produrre energia attraverso metodi secondari resta semplicemente lì, sigillato e opportunamente controllato in siti di stoccaggio appropriati. Non succede niente, assolutamente niente. Dopo aver raccolto dati per decine di anni è stato a più riprese dimostrato come non ci sia alcun rischio per la salute umana o per l’ecosistema circostante e sono in molte le personalità scientifiche, di diversa estrazione, che hanno più volte ribadito questo concetto nel tempo. È davvero incomprensibile l’ostilità di tanti Comuni italiani che dovrebbero invece fare a gara per accogliere i rifiuti nucleari visti i vantaggi economici pari a 15 milioni di euro annui. È stato addirittura dimostrato come vivere accanto ad una centrale nucleare attiva non abbia alcuna controindicazione, non accorci la vita, non faccia aumentare l’incidenza di qualsivoglia patologia, a differenza invece del vivere nella pianura padana, area con la peggior qualità dell’aria d’Europa, dove ogni anno si stima che circa 4000 persone muoiano prematuramente a causa del particolato fine prodotto dalla combustione e centinaia di migliaia soffrano di patologie correlate, più o meno gravi.

Non c’è il rischio che le scorie si accumulino oltremisura? No, perché la totalità delle HLW (High level radioactive waste) mai prodotte nel mondo dal primo impiego del nucleare in ambito civile nel 1954 ad oggi è di sole 370mila tonnellate, pari al peso dell’Empire State Building. Può sembrare molto, ma non lo è affatto se pensiamo che l’edificio è in gran parte è vuoto (occupato da aria) e composto da materiali con densità di molto inferiore a quella del combustibile esausto. È poi un’inezia se paragonato ai 2657 TWh (106 MWh, 109 KWh) di energia generata nel solo 2019 dalle centrali nucleari. Un terzo di queste scorie viene inoltre riprocessato generando ulteriore energia sempre più efficientemente grazie al progresso tecnologico.

C’è il rischio di attacchi terroristici? Ad osservare le statistiche no, anche perché una bomba detonata nei pressi di un reattore nucleare non potrebbe scatenare un’esplosione nucleare, che avviene con dinamiche totalmente differenti da quelle con cui funziona il reattore. C’è comunque il rischio che del materiale radioattivo si disperda nell’ambiente a seguito di un attacco, per questo le centrali nucleari sono attentamente sorvegliate da personale specializzato, oscurate dalle mappe online e periodicamente sottoposte a rigidi controlli dell’IAEA, l’organo dell’ONU deputato. Lo stesso non si può dire di altri siti, come ad esempio quelli d’estrazione dei combustibili fossili. L’unico attacco terroristico registrato è stato condotto in Francia nel 1982 da parte di frange di sedicenti ambientalisti che armati di RPG hanno sparato cinque razzi contro la struttura principale della centrale nucleare in costruzione Superphénix. Non ha avuto alcuna conseguenza. Nel 2003 Chaïm Nissim, eletto con il partito dei Verdi in Svizzera, ammise la propria responsabilità nell’attacco, dichiarando di aver ottenuto le armi dalle cellule comuniste belghe Red Army Faction e Cellules Communistes Combattantes. Anche per lui non vi furono conseguenze.

Autore: hrui Ringraziamenti: Getty Images/iStockphoto

C’è il rischio di disastri ambientali? Il più grande disastro ambientale di sempre è quello di Deepwater Horizon (2010), dove un’esplosione sull’omonima piattaforma petrolifera causò il versamento di greggio in mare per 87 giorni consecutivi. A questo si aggiungono quelli causati dalle super-petroliere Prestige (2002) ed Exxon Valdez (1989), oltre alle innumerevoli dispersioni di composti chimici industriali che ogni anno avvengono sia nell’acqua che nell’aria. Anche Chernobyl è da annoverare tra questi disastri, ma tra le cause troviamo l’inadeguatezza dei reattori RBMK, la scarsa competenza del personale in servizio e il tentativo di insabbiare l’incidente attuato dal governo sovietico, che per giorni negò l’accaduto, rallentò l’evacuazione dei cittadini e si oppose alla cooperazione internazionale. Trentuno persone, lavoratori della centrale e vigili del fuoco, furono esposte in pochi minuti a dosi superiori ai 700mSv, quando il limite annuo fissato dalla WHO è di 100mSv; morirono a seguito di una sindrome acuta da radiazioni. Nel raggio di 30Km dalla centrale gli adulti furono investiti da una dose compresa tra 5mSv e 150mSv. I liquidatori che operarono sul tetto del reattore 3 (circa 2000) ricevettero una dose media di 165mSv in un anno. Una persona residente nel nord Italia all’epoca dell’incidente ricevette una dose di radiazioni pari a 1mSv, l’equivalente di una radiografia all’addome, che si aggiunse ai 3mSv annui a cui siamo in media naturalmente esposti. Una tac addominale corrisponde a circa 8mSv. Una radioterapia può raggiungere valori superiori per diversi ordini di grandezza, anche decine di Sv (1Sv = 1000mSv), ma focalizzati specificamente sul tumore. L’Onu ha stimato che circa 50 decessi possano essere direttamente collegati all’incidente di Chernobyl e che circa 4000 decessi potrebbero essersi già verificati o verificarsi nei prossimi anni, resta però difficile stabilire una correlazione diretta vista anche l’età avanzata di molti soggetti coinvolti. Attualmente, tolte alcune zone di qualche decina di metri quadrati dove i liquidatori seppellirono abusivamente i detriti, la radioattività è bassa, al punto che l’area di Pripyat è divenuta un santuario della biodiversità, custodendo un vasto proliferare di flora e fauna. Per motivi culturali seguitiamo sempre ad associare la parola radioattività a morte certa o ad aumentata probabilità di morte, questa è semplicemente una falsità dettata dall’emotività e dall’ignoranza. Entro certi limiti, per altro discretamente alti, non vi è evidenza alcuna che il rischio relativo per la salute aumenti.

Quanto a Fukushima? Occorre essere distaccati nel valutare la tragedia, per quanto difficile. L’11 marzo 2011 nella regione di Tōhoku si registrò un terremoto di magnitudo 9, il quarto più forte mai registrato al mondo. Il Paese, che vanta una solida cultura antisismica, reagì bene alla violenta scossa, ma a questa fece seguito lo tsunami che si abbatté sulle coste con onde alte fino a 40m. Si trattò di un evento apocalittico che causò secondo le più recenti stime 20.541 vittime, per la precisione 15.894 morti e 4.647 dispersi. Per avere un metro di paragone l’uragano Katrina provocò 1.833 vittime. Delle 300mila persone evacuate circa 1.600, in prevalenza grandi anziani, morirono a causa dello stress a cui furono sottoposte. I sistemi di sicurezza della centrale Fukushima Dai-ichi disattivarono i reattori per prevenire possibili danni, ma lo tsunami senza precedenti si abbatté con onde alte più di 15 metri sulla centrale, oltrepassando le barriere appositamente predisposte, causando problemi all’impianto di raffreddamento del nocciolo di 3 dei 6 reattori presenti e provocando un meltdown con rilascio di iodio, cesio e cobalto radioattivi nell’ambiente, principalmente dispersi nell’acqua dell’oceano.

Nella prefettura di Fukushima, durante i primi 4 mesi, il 99,3% dei 386.572 casi analizzati aveva assorbito una dose di radiazioni minore di 3mSv, di gran lunga inferiore alla dose massima annua di 20mSv che è ad esempio prudenzialmente fissata dal governo italiano per le professioni esposte a radiazioni, come i tecnici ospedalieri. Trattasi per altro di dose massima media in 5 anni d’esposizione, in quanto il limite per la singola annualità può raggiungere i 50mSv, come avviene in molti Stati. Nonostante le catastrofiche prime impressioni rimbalzate sui media -in particolar modo italiani- ad oggi sappiamo che i rischi per la salute correlati all’evento sono stati di molto ridimensionati. Il numero di morti direttamente ascrivibile alle radiazioni è pari a 0. Per onor di cronaca va riportato un caso controverso di tumore insorto dopo l’incidente, oggetto di accordo economico privato tra le parti, in realtà non direttamente riconducibile a radiazioni. Il WHO non ha notato incrementi nel numero di aborti o di disturbi fisici e mentali nei bambini nati anche a distanza di anni dall’incidente. L’aumento delle patologie tiroidee nei minori è invece difficile da contestualizzare: nonostante un possibile incremento dovuto alle radiazioni, potrebbe comunque essere in larga parte stato causato dalla massiccia campagna di screening attuata negli anni successivi che, come spesso accade in medicina, ha agito da fattore confondente.

Dopo l’evento la pressione dell’opinione pubblica, già segnata da due bombe atomiche, costrinse a sospendere l’attività di tutti e 54 i reattori nucleari presenti in Giappone, che producevano il 30% dell’energia del Paese. Uno studio pubblicato dalla Columbia University ha concluso che le morti causate dall’attività delle centrali termoelettriche a petrolio che hanno sopperito allo stop nucleare siano molte più di quelle potenzialmente derivanti dall’incidente in sé. Già nel novembre 2011, per dimostrare l’efficacia degli impianti di decontaminazione, il parlamentare Yasuhiro Sonoda bevve in diretta un bicchiere d’acqua proveniente dai reattori 5 e 6 della centrale di Fukushima. Oggi Sonoda gode ancora di ottima salute, nonostante sia stato spacciato per morto innumerevoli volte, mentre il Giappone sta progressivamente riattivando i suoi reattori secondo un processo lento e costante, che deve fare i conti con le contrastanti emozioni dei cittadini.

Autore: Artush Ringraziamenti: Getty Images/iStockphoto

Come va nel resto del mondo? Attualmente vi sono circa 440 reattori nucleari che soddisfano il 10% della richiesta mondiale d’energia elettrica. Altri 55 sono in fase di costruzione e 109 in fase di progettazione. Il calore prodotto da una centrale atomica è inoltre molto richiesto da certe tipologie di imprese, oltre a poter essere utilizzato a più basse temperature per le abitazioni civili. C’è poi la produzione di idrogeno per il settore trasporti e la desalinizzazione dell’acqua, sempre più importante in aree del pianeta esposte a processi di desertificazione. Al momento il nucleare è escluso dai green bond europei, ma la promulgazione finale del testo di riferimento è prevista per il 2023 e la mozione che avrebbe voluto escludere definitivamente l’energia nucleare è stata respinta. La discussione resta aperta e la sensibilizzazione della pubblica opinione risulta fondamentale.

E in Italia? Produciamo più di un terzo dell’energia elettrica da fonti rinnovabili, ma il principale metodo resta l’idroelettrico. Non esente da un enorme impatto ambientale -e da tragedie come quella del Vajont, circa 2.000 morti- risente anche dell’età degli impianti, molti dei quali hanno ormai superato i 70 anni. Continuiamo comunque ad importare più del 10% dell’energia elettrica dagli Stati confinanti, in particolar modo dalla Francia che la produce al 72,3% con la fissione nucleare e dalla Svizzera, 38% nucleare. La centrale francese di Bugey dista poco più di 100Km dal confine italiano, quella svizzera di Lucens 88Km. Le importazioni di gas, pari al 95% del fabbisogno nazionale, hanno raggiunto nel 2019 i 70,9 miliardi di metri cubi (+4,5% sul 2018), confermandoci molto lontani dall’indipendenza energetica e costringendoci a mantenere rapporti di comodo con regimi autoritari e democrature. Abbiamo speso enormi quantità di denaro per il frettoloso smantellamento delle 4 centrali nucleari italiane attive. Solo per lo stabilimento di Caorso, rimasto in funzione a regime solo 3 anni, sono stati necessari 450 milioni di euro e ulteriori 300 milioni di euro per il riprocessamento del combustibile fissile.

Curiosità il nucleare viene impiegato con ottimi risultati anche per la propulsione navale. Una delle prime installazioni fu sulle navi rompighiaccio, che necessitano di molta energia per salire sul pack e romperlo con il proprio peso. Oggi trova largo impiego nelle navi militari di grande dimensione -come le 10 portaerei USA classe Nimitz- e nei sottomarini.

Si ringraziano per la collaborazione e la revisione Luca Romano - fisico teorico, master in giornalismo scientifico - e Fulvio Buzzi - ingegnere energetico, dottorando in ingegneria meccanica - che gestiscono il format di divulgazione scientifica l’Avvocato dell’Atomo.

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