Il primo problema per Giorgia Meloni si chiama debito

Ci vorrà ancora un mese prima che il nuovo governo si insedi, ma la premier in pectore ha già le sue gatte da pelare.

Al netto delle diatribe interne alla destra, prima fra tutte l’irrealistica ambizione di Salvini ad un ruolo di primo piano, la situazione economica che Giorgia Meloni dovrà affrontare è affatto semplice.
Il quadro macro è pericolosamente traballante. La guerra, l’inflazione, il costo dell’energia sono i capitoli che si dovranno affrontare con urgenza. Voci di palazzo riferiscono che Meloni abbia avviato dei colloqui con Draghi per essere aiutata nell’elaborazione della Legge di Bilancio. Se davvero si tratta di una richiesta di aiuto è un buon segno, perché significherebbe che gli inviti di Giorgia alla prudenza mentre intorno a lei impazzava l’asta delle promesse elettorali più folli, erano sinceri.

Lo spazio di bilancio è stato quasi integralmente prosciugato dai 3 decreti aiuti. Con la recessione tecnica nei primi 2 trimestri del 2023 è improbabile che se ne apra altro. Il rapporto debito/pil è calato di 4 punti grazie all’andamento dell’economia migliore delle attese, e grazie ad un attento uso dell’indebitamento netto da parte di Draghi e Franco. Il Documento di Economia e Finanza stimava il debito 2022 a 2.775 miliardi e una spesa per interessi per 65,8. Nello scenario attuale questi saldi peggioreranno. A contenere il rapporto debito pil di fine anno contribuiranno i 21 miliardi della seconda tranche del NGEU appena deliberati dalla Commissione. Questi 21 miliardi entreranno nel conto di tesoreria. A riprova del fatto che della UE non possiamo fare a meno così come non possiamo fare a meno di un governo razionale.

Mentre scriviamo lo spread è poco sotto i 250 punti base e il rendimento del decennale abbondantemente sopra il 4,5%.

L’anno prossimo andranno rinnovati circa 340 miliardi di debito in scadenza. Il costo medio ponderato del debito all’emissione era nel 2021 dello 0,10%. Nel semestre in corso questo costo medio è salito di quasi 2 punti e  mezzo. Se gli attuali tassi cedolari dovessero mantenersi costanti per tutto il 2023 il maggior costo per il servizio sul debito sarebbe di 7,2 miliardi.
L’emergenza probabilmente imporrà il ricorso allo scostamento di bilancio. Salvini lo invoca da mesi; dall’opposizione gli fa eco Conte, per il quale lo scostamento è una sorta di feticcio. Un debito aggiuntivo di 40 miliardi varrebbe, sempre agli attuali tassi di emissione, fra i 2,6 e 3,2 miliardi in più di spesa a seconda della composizione decisa dai tecnici del Tesoro. Dunque è prevedibile che il solo rialzo dei tassi sottragga alle casse pubbliche 10 miliardi; all’incirca la spesa prevista per il rifinanziamento del Reddito di Cittadinanza. Ogni punto in più sui tassi di emissione corrisponde a circa 3,5 miliardi.

Cosa si può fare dunque?

Difficile procedere con la tanto invocata (sempre da Salvini) pace fiscale. L’82,9% del cosiddetto magazzino è composto da crediti inesigibili e quel che resta (165 miliardi) per produrre un gettito sufficiente dovrebbe essere tassato al 27% e produrrebbe effetti di cassa su un orizzonte temporale non inferiore ai 3 anni.

Occorrerebbe invece abbandonare le faraoniche promesse presentate nel programma che, mal contate, valevano 160 miliardi di maggior spesa; in secondo luogo andare a pescare nelle pieghe di bilancio i residui per missioni non ancora saldati e destinare al contenimento delle bollette quelli relativi a capitoli di spesa già previsti nel PNRR; in terzo luogo contenere la spesa per consumi intermedi razionalizzando la disciplina delle centrali di acquisto; infine risparmiare qualcosa dei 1.060 miliardi di spesa totale (di cui 693 corrente).

Solo una manovra di questo tipo, o un mix di questo + minimo scostamento, potrà rasserenare i mercati e concedere una chance alla credibilità del Paese. Draghi l’ha detto in tutti i modi: solo con credibilità e affidabilità si può fare tutto quello che serve pagandone un prezzo accettabile.

Abbiamo sempre pensato che il pericolo rappresentato da questa destra al governo non fosse un’improbabile deriva verso il fascismo, bensì il posizionamento geopolitico ed economico all’interno della partnership europea. Fra qualche settimana vedremo in quale direzione Meloni vuole andare e se avevamo avuto ragione noi o gli appelli al fronte nazionale di Enrico Letta.

 

Indietro
  • Condividi