La vittoria di Jannick Sinner agli Australian Open, pur salutata con grande entusiasmo dal grosso (a naso) del pubblico italiano, ha richiesto a malapena 48 ore per accendere la polemica sulla sua residenza.
In quello che si può tranquillamente definire “yet another development in horseshoe theory”, malcelati neofascisti da un lato e veterocomunisti dall’altro sono corsi a stracciarsi le vesti sulla non italianità del soggetto, reo di avere la residenza a Montecarlo.
Due considerazioni molto rapide vengono immediatamente spontanee a chi non abbia definitivamente perso il lume della ragione a favore della propaganda “miserabile” (cit.) e provinciale di queste ore.
La prima è che, fino a prova contraria, scegliersi la residenza fiscale dove si vuole rientra nei diritti garantiti per legge. Gli italiani all’estero non pagano le tasse in Italia. Non pochi sono anche molto facoltosi. Alcuni rappresentano delle vere punte di eccellenza con le quali i vari governi di qualsiasi colore (in questo politicamente uniti come un blocco di marmo) sistematicamente corrono a prendersi parte del merito a successo avvenuto (“un successo italiano!”), pur avendo l’Italia contribuito in maniera assolutamente marginale al supporto delle idee e della operosità di queste persone, quando non le abbia proprio apertamente ostacolate.
La seconda dovrebbe essere ancora più immediata. Cosa farebbe, l’Italia, con questi incassi in più? Quando è che, seriamente, il grande pubblico dello stivale comincerà a chiedere conto alla sua politica di come e in che misura vengono amministrati i soldi pubblici nel paese dei superbonus? Una voragine di debito pubblico con una delle pressioni fiscali più alte d’Europa, una crescita economica stitica da 40 anni e dei servizi pubblici fatiscenti richiedono davvero, come primo punto all’ordine del giorno, che Sinner paghi le tasse in Italia per essere definito “Italiano”, whatever the f#ck that means?
Benaltrismo? L’esatto contrario. Quello è fisso nella testa di tutti quei soggetti intellettualmente poveri (prima ancora che finanziariamente, non a caso) che hanno innescato questa polemica, perché è proprio l’ordine di priorità ad essere sballato dal principio.
La vittoria culturale del grillismo, a ben guardare solo epifenomeno più eclatante di un vizio nazionale di vecchissima data, è stata da un lato il falcidiare psicologicamente le gambe a chiunque abbia un minimo di iniziativa in più, dall’altro la normalizzazione delle prebende (aka il voto di scambio travestito) a connotato culturale della nazione.
La fondamentale differenza fra un paese come gli USA e uno come l’Italia si vede nel rapporto del pubblico con il successo individuale, in qualunque forma questo si manifesti.
Uno dei problemi mentali, culturali, addirittura filosofici del sistema Italia è quello di essere un paese strutturalmente invidioso.
Punto di convergenza della destra post-fascista e della sinistra post-comunista è quello di non credere nel talento e nell’iniziativa individuale, anzi di volerla controllare e contenere. Nel primo caso per un malinteso senso di autorità mescolato a misticismo patriottico (nazionalismo e innovazione vanno raramente d’accordo), nel secondo per una malriposta fiducia nelle capacità dello “stato imprenditore” (LOL) di saper amministrare meglio e più equamente la ricchezza collettiva.
Per la politica è capziosamente molto comodo mantenere questo tipo di propaganda. Per il “popolo”, intriso da decenni di detta propaganda autoalimentatasi, risulta ormai impossibile comprendere l’inghippo.
Intanto, l’Italia rimane ferma nella melma in cui si trova: una causa persa che con queste premesse non troverà riscatto nell’immediato, medio, o anche lungo termine.
*Foto di si.robi. Licenza: Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic