La palla al piede della “Dote” - Una risposta a Carlo Rovelli

Il mio tesoretto da 10.000 euro ce l’ho avuto, non a 18 anni ma a 26. E non mi è arrivato per “dote” o “successione”, è il primo piccolo finanziamento che ho richiesto alla mia banca, dando come garanzia l’automobile di cui avevo diligentemente pagato le rate nei tre anni precedenti. Ed è stato un disastro: l’ho usato male, la mia attività è capitombolata e mi son trovato a restituirlo con ritardo e negligenza.
Sapete perché è accaduto questo? Perché, per quanto quei 10k (come dicono i giovani) fossero reali e lì sul mio conto corrente, non sapevo davvero che farne. Il lavoro che facevo non mi dava felicità e i soldi erano serviti più ad “evadere” quell’infelicità che non a costruirmi qualche cosa. Il denaro, in assenza di progetto, diventa una tentazione a sprecar energie, ed il denaro stesso.

Io sono davvero felice di leggere le parole di Carlo Rovelli, divulgatore di cui ho grande stima, il quale racconta di come quella piccola dote della sua gioventù gli abbia permesso di viaggiare e formarsi; di come la sicurezza finanziaria abbia permesso ad amici suoi, musicisti o imprenditori, di costruirsi un futuro. Ma dietro questa aneddotica, mi spiace dirlo, c’è una visione antropologicamente povera dell’umanità: non è vero che serve una rete di sicurezza per trarsi d’impaccio e d’impiccio, e anzi, quelle certezze possono significare la morte della spinta creativa che spesso ci porta ad uscire dai vicoli ciechi e che nasce non dall’agio, ma dalla difficoltà.


La visione antropologica di Rovelli contraddice l’evidenza secondo cui è proprio dall’avversità e dal dissesto che si traggono le energie per ritagliarsi un avvenire migliore. Non è certo una regola universale, ma se da un lato abbiamo gli aneddoti di Rovelli e dei suoi amici, dall’altro abbiamo l’intera storia umana che continuamente dimostra come la nostra mente sappia costruire strumenti e tracciare sentieri laddove strumenti e sentieri non sono già disponibili. La creatività nasce dalla capacità di fare del proprio meglio con ciò che si ha, e alcune persone fanno del loro meglio con il poco, altre fanno del loro peggio con il molto. L’idea che per “produrre cose utili per la società” si debba avere un “tesoretto” è pura propaganda a sostegno di una misura (l’aumento della tassa di successione) che avrebbe anche una ragione d’essere se non fosse indirizzata a un mero scopo di campagna elettorale (scopo reso palese, mi spiace dirlo, addirittura da Elsa Fornero quando su “La Stampa” di martedì si chiede come mai la “dote” non sia stata pensata per i sedicenni, dal momento che il PD vuol abbassare l’età del voto).

La sinistra si svela dirigista quando le conviene (per esempio, sul Decreto Semplificazioni e la riforma degli appalti, su cui serve una iper-normativismo altrimenti la criminalità vince) e libertaria quando invece no (i diciottenni possono avere 10.000 euro svincolati da tutto, siamo certi che li useranno nel migliore dei modi). Ma prescinde, sempre quando conviene, dal comprendere che tutto ciò dipende dal contesto: una dote di quel tipo potrà anche essere utile per una famiglia non economicamente dissestata, il cui rampollo già pensa di scegliere l’università e magari intraprendere una carriera nella musica o nella produzione di software, ampliando così il proprio respiro e potendo contare su un contesto che lo spinge a utilizzare quei soldi in maniera virtuosa. Ma la stessa dote rischia di essere l’esatto opposto per un diciottenne proveniente da una situazione economica disastrata e depressa, la quale inghiottirà quel tesoretto senza alcun effetto positivo. Gli incentivi non sono indipendenti dal contesto sociale.

Il bivio non è quello mostrato da Rovelli (“qualcuno lo investirà, qualcuno lo butterà tutto in cioccolata e caramelle”, alternativa che riflette la classe sociale da cui l’autore proviene), il bivio è quello tra poter usare liberamente il tesoretto per viaggiare, investire su di sé e prendersi un anno sabbatico, o il veder inghiottire quei 10k da un contesto in cui il denaro diventa subito cibo per i problemi. L’infelice tweet di Francesco Venier (“chissà cosa farebbero i diciottenni di Scampia con quei 10.000 euro”) esprime in malo modo una dura verità: c’è una differenza rimarchevole tra ciò che quella dote può significare per un ragazzo della classe media milanese, economicamente non agiata ma stabile, e uno della periferia napoletana, che si trova in un contesto disastroso. In un caso, forse, una maggiore libertà, nell’altro il nulla cosmico nella migliore delle ipotesi, un ulteriore conflitto da affrontare nella peggiore.

Per questo, la proposta di aumentare la tassa di successione ha senso solo se quel denaro va a impattare sui contesti in cui i giovani possono trovare un vantaggio reale: l’abbassamento del costo del lavoro per il primo impiego, l’agevolazione per le imprese che formano i propri giovani lavoratori, il miglioramento di quei contesti che non hanno bisogno di “helicopter money” ma di fondi per infrastrutture, per l’istruzione, per lo sviluppo di competenze. Soltanto ristrutturando il contesto possiamo permettere tanto ai giovani milanesi quanto ai diciottenni di Scampia di usare le proprie doti naturali (l’intelligenza, il talento, la forza, il carattere) per migliorare le proprie condizioni: il denaro è una conseguenza, non la conditio sine qua non.
La visione di Letta e Rovelli, raccontando di diminuire le disuguaglianze, ne creerebbe di nuove: quella tra i diciannovenni e i diciottenni di oggi, per esempio (lo Stato è davvero una roulette anagrafica?), ma soprattutto quella tra chi già possiede le condizioni per usare bene quell’assegno e chi quelle condizioni non ce le ha. Da un lato il ragazzo che li usa per farsi un anno in Canada, dall’altro quello che è costretto a dare i soldi alla famiglia per pagare bollette e rate del mutuo (se non vederli inghiottiti in spese improduttive della peggior specie, nutrimento di vizi e difetti magari non suoi).

Ovviamente, per arrivare a comprendere ciò la sinistra ha bisogno di cambiare la sua visione antropologica: la dote dell’individuo è il suo talento, la sua intelligenza e la sua capacità di trarre il meglio con gli strumenti a disposizione. Il ruolo dello Stato è eventualmente quello di riformare e modificare le condizioni sociali, ristrutturare il contesto in cui ed i meccanismi attraverso cui quella dote naturale viene utilizzata. 10k non significano nulla ma prendono la forma di quel che già siamo: noi come individui e come comunità. Usiamo quei miliardi provenienti dalla tassa di successione per ciò che serve davvero: non la mancetta elettorale utile solo al PD, ma una nuova visione dei talenti e delle capacità dei giovani, e la costruzione di una società che permetta a tutti di metterli a frutto. Forse, in quel caso, avremo davvero fatto un po’ di giustizia.

Indietro
  • Condividi