La SuperLega è morta, W la SuperLega

E' durata 48 ore la vita della Superlega, anche se sarebbe più corretto dire che è durata una ventina d'anni e 48 ore; e non è detto che sia finita qui.

In queste convulse ore non c'è persona, intellettuale, tifoso, politico (soprattutto politico) che non si sia espresso sullo strappo deciso, e poi ritirato, dai 12 superclub europei. Molte delle parole lette e ascoltate sono state dettate da quei sentimenti, spesso poco razionali, che solo il calcio e la politica sanno muovere. In particolare le parole dei politici, i quali non perdono occasione per entrare con falli da cartellino rosso nel mondo del pallone, sono sembrate a chi scrive cacofoniche. Sulle intemerate di Letta, Conte, Salvini e Boris Johnson vi rimando al video fatto da Michele sul suo canale. Quello che mi preme è spiegare con gli occhi di un appassionato annoiato perché l'iniziativa di Perez e Agnelli non era un'eresia e perché la questione potrebbe non chiudersi con la marcia indietro dei club inglesi.

Oratorio vs. globalizzazione

Chi in generale si è espresso contro la Supelega ha fatto spesso riferimenti nostalgici ad un calcio antico, fatto da piccole squadre di provincia che si confrontano con le grandi, fatto dalla passione in verità un po' primitiva nata all'ombra di un campanile, fatta di colori (quelli della maglia) e fatta da campi in terra battuta e pietrisco su cui quelli della mia generazione si sbucciavano le ginocchia. E' un mondo quello che ha un qualche fascino ma che oggi nel ventunesimo secolo può al più entrare nelle scene di un film neorealista. Quel calcio non esiste; o almeno non esiste ai livelli in cui i club di Liga, Premier e Serie A si muovono in cui gli ingaggi, il giro d'affari e il merchandising parlano una lingua completamente diversa.

Ragion per cui l'obiezione nostalgica è completamente fuori sincrono. Leghe nazionali, Uefa e Fifa ne sono consapevoli essendo loro stesse parte del business calcio.

 I governatori del calcio

La Uefa è una società costituita nel 1954 dalle leghe francesi, italiane e belghe. Oggi conta 55 federazioni nazionali. Organizza e gestisce i tornei europei che vanno da quelli più noti a quelli giovanili. Sovrintende a tutti i regolamenti calcistici europei e talvolta si scontra con regole di rango superiore della UE e con le sentenze dei tribunali. Soprattutto negozia e distribuisce i proventi derivanti dai diritti tv che rappresentano ormai una parte preponderante dei ricavi dei club. Nella distribuzione dei proventi naturalmente applica criteri perequativi a vantaggio degli attori più deboli (e dei suoi non trascurabili costi di funzionamento)..

Lo scontro sull'applicazione di questi criteri non è nuovo. Risale ad almeno due decenni fa quando il calcio iniziò ad essere fenomeno globale grazie alle televisioni. Dal 1955, anno di nascita della Coppa dei Campioni, la formula del "campionato europeo per club vincitori dei trofei nazionali" è cambiato 11 volte, 8 delle quali negli ultimi 26 anni da quando si chiama Champion League. A testimoniare il fatto che la rincorsa verso la massimizzazione dei profitti derivanti da diritti televisivi è stata tormentata e, di fatto, incompiuta. Diritti televisi che, occorre dirlo, sono frutto dell'appeal dei top club (e quindi dei loro investimenti) e dei top player enormemente più di quanto siano alimentati dalla passione delle tifoserie per le piccole squadre.

I top club

Una stagione di CL vale circa 3 miliardi di ricavi da diritti televisivi. Agli "attori" vanno grosso modo i 2/3 di questa torta. Poco o molto che siano in valore assoluto, si tratta di cifre che dipendono a) dal numero di squadre partecipanti e quindi di partite previste b) dal percorso di ciascun club fino alla conclusione del torneo c) dalle decisioni che vengono prese a Nyon.

Per società private che hanno elevati o elevatissimi costi operativi l'anelasticità dei ricavi è un problema esiziale. Certo potrebbero ridurre i costi come si fa in qualunque altra iniziativa privata virtuosa condotta secondo criteri di economicità, ma il calcio è per sua natura un mondo a parte. Un mondo fatto di passione e tifo che spesso determinano scelte non razionali, di opinione pubblica e di sovracopertura mediatica, di imprevedibilità di eventi (il pallone è pur sempre rotondo, come si suole dire).

Un club sportivo per coprire i propri costi e magari competere ad alto livello agonistico può a) ricorrere a finanza esterna, è il caso ad esempio di Manchester City e Paris Saint-Germain; b) differenziare il proprio prodotto puntando sul merchandising e lo stadio di proprietà, è il caso ad esempio di Juventus; c) ricorrere alle sinergie infragruppo, è il caso ad esempio dell'Inter.
Si tratta sempre in tutti i 3 casi di proventi non derivanti dalla gestione caratteristica che si sostanzia comunque con la partecipazione a tornei competitivi.

Il tentativo di creare una Superlega è stato dunque determinato dalle necessità, legittime, dei club più ricchi (e indebitati) di trovare il modo migliore di vendere il loro prodotto che è un prodotto frutto dei loro investimenti e del loro rischio d'impresa. Il fastidio, l'irritazione quasi, per la pubblicizzazione dei ricavi e la privatizzazione dei costi, non è né una provocazione né frutto avvelenato di egoistiche logiche di mercato (neoliberista, ca va sans dire).

I tentativi Uefa di rispondere a queste istanze attraverso l'aumento del numero di partite giocate sono inefficaci perché inefficaci sono i criteri di redistribuzione dei proventi. Che quel genere di spettacolo possa produrre di più lo certifica il fatto che un grande operatore finanziario come JP Morgan è pronto a mettere sul piatto dei "ribelli" 3,5 miliardi di dollari l'anno per un torneo che a livello mediatico rivaleggerebbe con Superbowl e olimpiadi. 

Risibili appaiono le obiezioni secondo le quali verrebbe a mancare la competizione o che alla lunga un Real Madrid-PSG giocato 4 volte l'anno stuferebbe. La competizione è insita in tutti gli sport professionistici e RM-PSG diventerebbe presto un nuovo clasico con rivincite continue.

E le piccole squadre?

Credo, e ne sono convinto fermamente, che il mix fra le aspirazioni dei top club di riappropriarsi del loro prodotto e di quelle dei piccoli club di confrontarsi e magari crescere, possa essere agilmente raggiunto se nella dialettica feroce di questi giorni si introducessero elementi di razionalità non inquinati da retorica politica. Basterebbe ridisegnare i calendari, ridefinire in modo serio e non predatorio la distribuzione dei proventi, evitare di minacciare il ban per le squadre o addirittura la squalifica dai tornei per i calciatori che di quelle squadre sono dipendenti. 

Lo sport come tutte le attività umane si evolve. Pensare di contenere l'evoluzione nelle gabbie della nostalgia per un calcio che già non esiste più è illusorio e pericoloso. Certo non vedremmo forse mai un Crotone-Liverpool ma, francamente, anche con le regole attuali non mi sento di poetr dire che sia una eventualità possibile.

 

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