L’inflazione cumulata alla fine del periodo khomeinista arrivò al 520%. Sull’andamento dell’economia influì sicuramente anche la guerra con l’Iraq, scatenata il 22 settembre 1980 dal dittatore – laico, questa volta, ma comunque un po’ socialista – Saddam Hussein per contrastare tanto l’influenza degli sciiti nell’area quanto per ridefinire i confini fino allo Shatt Al-Arab. Saddam non ebbe particolare fortuna – le guerre chiaramente non erano il suo vantaggio comparato, come ebbe modo di scoprire nei decenni successivi – ma il costo per l’Iran fu sostanziale.
La presidenza Rafsajani (1989-1997) inizia quando la situazione economica tocca il minimo assoluto e si contraddistinse per il tentativo di riformare un’economia socialista e una struttura sociale incentrata sull’applicazione del codice penale islamico che stavano portando il paese alla fame. Come crediamo sia facile verificare consultando fonti di dati disponibili on line, le “liberalizzazioni” che introdusse ammontarono a ben poca cosa per gli standard delle economie europee e le poche privatizzazioni furono nel perfetto stile di ogni autocrazia, ovvero trasferire a soci e compari o compagni, come accadeva in Russia più o meno negli stessi anni. Non a caso Forbes stima la ricchezza personale di questo modesto chierico a più di un miliardo. Qualcosa quelle riforme fecero, come il grafico mostra, ma molto poco. Ed altrettanto poco fecero le seguenti sino ad oggi per tre semplicissime ragioni: (i) le sanzioni, (ii) il controllo politico-religioso sul complesso dell’attività economica, (iii) la profonda corruzione che caratterizza il gruppo di potere economico-religioso che controlla l’Iran e che ha nei Guardiani della Rivoluzione il suo perno.
Nel 1997 fu eletto presidente Seyyed Mohammad Khātami che aveva l’intenzione di proseguire le riforme economiche previste dal piano quinquennale del predecessore. In una dichiarazione riportata nel bollettino del 1998 dell’IMF il presidente della banca centrale dell’Iran Hossein Namazi descriveva i problemi del Paese, sostanzialmente determinati dalla dipendenza dall’export di oil and gas, e delineava gli ambiti delle riforme
the objectives of this program are: greater transparency in the macroeconomic system and regulatory frameworks; budget reforms; tax reforms; downsizing of the government's role in economic activities and privatization of government enterprises; promotion of private investment; dismantling of monopolies and promoting of competition; price liberalization in all but a handful of products for which the government will subsidize specific quantities; and a social safety net to protect those most vulnerable.
Detto altrimenti: dopo quasi dieci anni di “riforme neoliberali” al Fondo Monetario trovavano ben poco di liberale, neo o non-neo, nel sistema economico dell’IRI. Tuttavia a queste intenzioni - buone o cattive, non importa ai fini della nostra analisi - non seguirono effetti concreti. Scriveva nel 2000 l’IMF “l’economia della Repubblica Islamica eredita gli effetti di un’eccessiva centralizzazione; molti settori dell’economia soffrono ancora della presenza di monopoli, incluso il settore finanziario, e dipendono troppo dall’andamento dell’export di petrolio”.
Buona parte della redistribuzione del reddito in quegli anni e in quelli a venire avvenne attraverso sussidi, in particolare sul prezzo dei carburanti finiti; tanto che i costi di estrazione delle enormi riserve di petrolio e quelli di raffinazione non erano coperti dai prezzi. Una parte consistente del budget del governo, fino al 70% secondo la storica italo-iraniana Farian Sabahi, era gestito tramite fondi extra bilancio. Tale criterio consentiva al governo di aggirare meccanismi di revisione, destinare risorse verso obiettivi considerati desiderabili senza vincoli parlamentari, e alimentare fenomeni corruttivi. Il governo era coinvolto in ogni genere di attività produttiva controllando non solo i prezzi del petrolio ma anche quello dei beni di prima necessità, quelli agricoli e naturalmente il credito. Altro meccanismo rilevato dalla professoressa Sabahi è quello della speculazione sui tassi di cambio attuata da esponenti del regime e imprese ad esso legate: questi ottenevano prestiti al cambio agevolato di 1750 Rial per un dollaro e rivendevano sul mercato al valore di mercato di 8000 rial per dollaro. Un altro meccanismo per l’occultamento dei fondi e controllo dell’economia era quello delle fondazioni (Bonyad) legate al regime. La Bonyad mostafazan va janbazan era impegnata in vere e proprie attività commerciali vendendo bevande e gestendo alberghi delle catene Hilton e Hyatt.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro, sempre l’IMF scriveva nel 2002 Pressure on the labor market might remain severe in the next few years, owing to Iran's demographic dynamics and the relatively weak employment content of growth compared to other countries […] The mission encourages the authorities to step up the efforts underway to reform the labor law and provide a regulatory environment conducive to job creation.
Nel capitolo relativo al mercato del lavoro nel rapporto del 2002 si legge inoltre:
“Delineating the reasons behind the weak growth performance in Iran is beyond the scope of this note. However, a number of factors are likely to have contributed to the insufficient output growth, including the public dominance of economic activities”
Vale la pena ricordare che, nella vulgata di moda, l’IMF svolgeva il ruolo di “cuore pulsante” del neoliberismo mondiale e che, secondo l’analisi “neocomunista” (neo per neo, anche noi ci inventiamo il nostro) in quell’epoca il paese era gia stato totalmente liberalizzato ed il flusso di investimenti diretti esteri, con l’eccezione della brevissima fiammata 2001-2005, oscilla fra lo 0,5% e l’1% del PIL nazionale!
La dottoressa Morgana afferma che il 90% dei contratti di lavoro sono a tempo determinato e che i rapporti sono mediati da agenzie. Non abbiamo gli strumenti per verificare o confutare questi dati, ma nell’articolo che cita, un’intervista all’economista Mohammad Maljoo, si legge che quando Khatami chiese l’ingresso nel WTO una delle condizioni richieste fu l’istituzione di organizzazioni sindacali indipendenti, ma che “era chiaro che il Consiglio Islamico del Lavoro (una delle 3 forme di rappresentanza) non era indipendente”. Le pagine che Wikipedia dedica all’economia iraniana, in varie lingue e con testi diversi compilati da esperti diversi, concordano nello stimare che circa il 50% del sistema economico iraniano sia ancora pianificato sulla base di piani quinquennali di perfetto impianto socialista. Quella francese, per esempio, dice
L'économie iranienne combine de fortes participations de l'État dans le pétrole et les grandes entreprises (industrie lourde, biens de consommation...), un système de planification quinquennale et une agriculture villageoise et des petits commerces. L'État complète son contrôle de l'économie par les subventions accordées sur les biens de première nécessité, l'essence et les services publics. La part de l'économie informelle est assez importante. L'Iran, avec un PIB de 990 milliards de dollars (PPA, 2011), se place au deuxième rang de la région (derrière la Turquie)2, et avec un PIB de 482 milliards de dollars (nominal, 2011), se place au troisième rang de la région (derrière la Turquie et l'Arabie saoudite)3. Les principaux revenus du pays sont tirés de la vente de pétrole et de gaz naturel.
Non solo, i pochi dati che siamo riusciti a trovare con rapidità suggeriscono fortemente il contrario. Questa base dati, per esempio, mostra che circa il 18% degli occupati sono funzionari ministeriali o governativi e che l’85% di essi sono a tempo indeterminato. Per far tornare i conti sarebbe necessario che il 100% degli occupati che non sono funzionari statali siano a tempo determinato. Sul sito della International Labor Organization si trova una analisi del mercato del lavoro iraniano che pure contraddice l’affermazione in questione.
Questi fatti ovviamente non implicano che la situazione del mercato del lavoro iraniano sia rosea, al contrario essa è penosa e drammatica. Ma il vero problema sta nel fatto che l’economia iraniana, tra pianificazione, sanzioni e corruzione, risulta incapace di creare lavoro: un paese di 85 milioni e con una struttura demografica molto giovane ha circa 24 milioni di occupati (un milione solo più dell’Italia!) ed una partecipazione infima delle donne e dei giovani al mercato del lavoro. Basta una visita ai siti statistici internazionali per rendersi conto che quello è il fattore negativo dominante che contribuisce a spiegare l’esasperazione della gioventù iraniana. Oppressione, corruzione, povertà ed esclusione sono un cocktail esplosivo. Cos’abbia tutto questo a che fare con le teorie liberali e con l’economia di mercato ci sfugge.
In sostanza, a dispetto delle parole, la presenza del settore pubblico rimase predominante ed il potere politico controlla il sistema economico: la stima più accreditata dice che i Guardiani della Rivoluzione controllano circa 1/3 del sistema economico. Si tratta di 120mila persone in un paese di 85milioni! Abbiamo anche visto come i vari governi sotto Rafsajani, Khatami e Ahmadinejad abbiano puntato sulla distribuzione di sussidi, in particolar modo per l’acquisto di carburante per l’industria e l’agricoltura. La rivolta del 2019, repressa nel sangue in pochi giorni (1500 morti secondo le stime ufficiali) prese le mosse proprio dal prezzo dei carburanti. Il 15 novembre 2019 il governo Rohani aumentò il prezzo dei carburanti. Con quel provvedimento ogni auto per uso privato avrebbe avuto a disposizione solo 60 litri di benzina al mese (prima erano 250) al prezzo di 15,000 Rial invece di 10,000 Rial. Ogni litro aggiuntivo oltre i 60 sarebbe costato 30,000 Rial.
Non c’è traccia di liber(al)ismo (vecchio o nuovo che sia) nella struttura economica iraniana ma di monopoli, controllo politico del sistema economico e dirigismo. C’è abbondante evidenza, soprattutto, di governi e di politiche che hanno impedito al sistema economico di evolversi e di seguire le dinamiche sociali e demografiche. La popolazione iraniana cresce al ritmo del 3,5% annuo ed è raddoppiata dal 1980 ad oggi, il sistema economico non offre lavoro a questi giovani e quando lo offre si tratta di lavoro precario e scarsamente produttivo.
L’Iran è il quinto Paese al mondo per giacimenti di petrolio e l’economia è sempre dipesa dall’export di questa commodity. Ma gli embarghi conseguenti al posizionamento della repubblica nello scacchiere geopolitico e al programma di arricchimento dell’uranio per fini militari ne hanno ridotto la capacità di esportazione. L’export totale è passato da 126 miliardi di dollari del 2011 a 10,8 miliardi di dollari del 2020; l’incidenza del petrolio grezzo sul totale delle esportazioni è passato da un picco dell’81% ad un minimo, sempre nel 2020, dell’11%.
Ed infine, siccome “liberale” ha a che fare con libertà politiche ed economiche, personali e collettive, vale la pena ricordare che l’Iran arriva in 170esima posizione nel Freedom (Libertà) Index, ultimo persino nei paesi di quella regione.